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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 017

Maura Del Serra

La Minima [con una nota di Daniela Marcheschi].

ISBN 88-87296-03-0, 1998, pp. 48, formato 140x210 mm., Euro 7,00 – Collana “Egeria” [2].

In copertina: foto di Simone Weil scattata a Baden-Baden nel 1921.

indice - presentazione - autore - sintesi

7,00

Introduzione

 

Maura Del Serra è intellettuale fra i più preparati e sensibili della sua generazione. Personalità come la sua, ricche di interessi e di talenti, sono oggi rare nel panorama della cultura italiana, dove l’apparire e l’essere presenti ad oltranza, l’aggressività e lo scialo verbale sono spesso scambiati per valori.

Ciò che invece colpisce in chi avvicina Maura Del Serra è il garbo signorile, che vela una malcelata timidezza, la misura del parlare e un’insolita mitezza dell’ascolto, che mi ha fatto subito tornare alla mente il sapore di incontri umani e intellettuali per me indimenticabili. Non è un caso che uno dei riferimenti, per umanità e per cultura, più fecondi di suggestioni e di proposte etiche sia stato anche per lei Vittorio Sereni, capace come pochi da un lato di perseguire un’austera ricerca interiore, dall’altro di nutrire un’attenzione partecipe per l’esperienza degli uomini e del suo tempo.

Accanto e oltre Sereni, ci sono l’opera e la personalità di Clemente Rebora, in cui la dimensione etica è accesa e trascesa da quella spirituale. Lo specchio e il fuoco, appunto (tanto per citare uno dei volumi critici dell’A.), vale a dire la molteplicità dell’umano, del fenomenico, della contraddizione, che si congiunge con e nel «fuoco» della limpidezza contemplativa, della dantesca «profonda e chiara sussistenza».

Proprio la tensione spirituale dell’opera di Clemente Rebora assume un significato esemplare per la poetessa Maura Del Serra, i cui versi esprimono una forte e oggi inusuale (ma la Del Serra è orgogliosa di essere «inattuale»...) carica religiosa – da intendere nel senso etimologico di ciò che unisce le varie dimensioni dell’essere e dell’esistere – senza tralasciare di fiorire in improvvise accensioni mistiche.

Ma la poesia e la cultura di Maura Del Serra si alimentano anche di un ampio spettro di esperienze filosofiche, sapienziali, simbologiche, musicali o attinte dalle arti figurative, per non dire delle letterature straniere. Non bisogna infatti dimenticare la convergente attività di traduttrice, che ha condotto la Del Serra ad occuparsi di autori cronologicamente eterogenei, ma tematicamente affini: dall’elisabettiano George Herbert a Else Lasker-Schüler, da Suor Juana Inés de la Cruz a Simone Weil a Borges, da Virginia Woolf e Katherine Mansfield a Francis Thompson.

Coerente con tale larghezza di interessi è l’attività critica, che si articola in un percorso d’indagine capace di spaziare da Jacopone da Todi a Foscolo, da Vico a Collodi, però con una netta propensione per l’area novecentesca e, in particolare, per i vociani «moralisti». Senza peraltro omettere la complessità sperimentale di un Pascoli, che ha guidato l’A. a studiare di recente uno dei lettori pascoliani più agguerriti, Pasolini, e contestualmente Betocchi, Caproni e la Guidacci.

Così, potremmo dire che una costante del lavoro della Del Serra è proprio il suo interesse per autori e personalità artistiche contrassegnate da un fermento problematico, che tende spesso a diventare polemico, «eretico» nei confronti dei valori comuni. Ecco quindi, pure nel teatro, l’attenzione verso personaggi che si discostano – per intensa singolarità – dalle norme e dal conformismo istituzionale, per aderire invece a quella legge interiore, di dura elezione e conquista, che conduce spesso a “perdere nella storia”, ma certo a “vincere nelI’anima”, secondo la nota espressione di Jahier – altro autore caro alla Del Serra.

Il suo dramma La fonte ardente è infatti la rivisitazione dei momenti, degli incontri di più bruciante significato nell’esperienza esistenziale di Simone Weil, ad illuminare quella tensione verso un’intima perfezione, fatta della ricerca del modo più autentico e pieno di compromissione di sé, di dono totale: una componente squisitamente propria dell’anima femminile. Un tema che si ritrova ne La Fenice, la cui protagonista, Suor Juana Inés de la Cruz, è segnata da un destino più tragico. In questo testo si può avvertire infatti un dissidio ancora più doloroso, dato dal contrasto tra vocazione interiore da un lato, ed interdizione e oppressione sessuale e sociale dall’altro, e complicato dallo scontro culturale fra colonizzatori e colonizzati, nel Messico seicentesco.

Da notare che si tratta di drammi in versi, come già nell’opera di Luzi; però qui Maura Del Serra, alternandolo all’endecasillabo, recupera il martelliano – verso di tutta una tradizione epico-drammatica, ma anche flessibile alle esigenze di scansione e recitazione moderne.

È in prosa, invece, L’albero delle parole, la cui figura principale è ispirata in modo lato alla personalità di Don Milani. Anche in tal caso troviamo un personaggio teso, capace di spendersi in una esperienza pedagogica e spirituale completa che, per il peso che la contraddistingue, risulta alla fine inaccettabile ad una società che insegue, invece, la leggerezza del conformismo e di vite che non sperimentano se stesse.

La Minima – qui pubblicata – è infine (come premesso) la trasposizione drammaturgica della figura di Madre Margherita Caiani, una popolana che, agli inizi del secolo, seppe reinventare la pietà in forme tanto umili quanto autentiche. Un’opera nata su commissione, che Maura Del Serra ha affrontato nel suo stile: «per scommessa», cioè per confrontarsi con l’esperienza proiettata oltre la storia, ma anche concretissima, della santità.

 

Daniela Marcheschi

 

 

 

 

 

 

Nota

 

 

Dopo aver minuziosamente consultato il ponderoso corpus di documenti riguardante la Caiani (soprattutto la sua vita, le sue lettere e i suoi appunti non ufficiali), Maura Del Serra ha inteso restituire sulla pagina la forza spirituale, attiva e contemplativa ad un tempo, di questa figura di donna, autodidatta in tutto (anche, per così dire, nella fede), la spontaneità affabile e affettuosa del suo carattere oblativo, e insieme il rigore interiore della sua testimonianza, segnata dal coraggio umile e adamantino caratteristico della religiosità popolare, anzi dell’aristocrazia spirituale spontanea propria di tale religiosità, che la Caiani rende capace di trasmettere una certezza ben più che istituzionale: la certezza mistica e metastorica operante alla base stessa del cristianesimo, cioè l’attività invisibile e incessante della Grazia nel mondo, alla cui creazione e rinnovamento continuo il santo partecipa con tutte le creature: la quotidianità umile, non appariscente e naturale del miracolo, che è presente nelle fibre della vita stessa, anche e soprattutto nelle più dolorose e oscure.

Perciò la Del Serra ha attualizzato, calato e messo a confronto col quotidiano contemporaneo, nei suoi problemi e nelle sue lacerazioni, la figura della Caiani (il cui desiderio ecumenico era «che nessun’anima si perda nel mondo intero»).

La vicenda del dramma è ambientata in un parco romano vicino al Vaticano, dove, nel giorno della sua beatificazione, la Suora appare a un Uomo e a una Donna che fino alle ultime battute restano senza nome, sia perché figure «anonime» e quindi esemplari, sia perché privi di vera identità interiore.

L’Uomo e la Donna non sanno nulla della Suora, sono interamente chiusi alla comunicazione reciproca, immersi nei loro rispettivi problemi e grovigli esistenziali, che li hanno portati per disperazione ad auto-emarginarsi dalla vita attiva.

Via via che la Suora, con naturalezza e partecipazione, riesce a instaurare con loro un colloquio, inserendovi episodi salienti e caratteristici della sua vita (i più drammatici sono evocati da scene in flash-back) i due «si sciolgono», si scoprono reciprocamente e divengono capaci di interesse, di dissenso e di meraviglia: di parola, insomma, fino alla catarsi conclusiva (la presentazione l’uno all’altra prima dell’uscita di scena) che resta peraltro aperta ad ogni sviluppo.

La Minima sparisce quando i due non hanno più bisogno di lei, o meglio, quando sono ormai in grado di riconoscerne, sullo schermo televisivo ma anche in sé, la santità come lievito, luce, senso del sacro che anima e sostiene la vita di ognuno.

 

 

Madre Margherita Caiani, la figura che è al centro di questa opera teatrale, nacque col nome di Marianna a Poggio a Caiano nel 1863, da famiglia modesta ma non priva di distinzione. Il padre era fontaniere della reale Villa Medicea di Poggio. Superò presto la tradizionale devozione familiare e paesana, per il suo personale e precocissimo fervore nelle opere di assistenza e di carità, per uno zelo religioso vivace e attivo soprattutto verso le classi socialmente più emarginate, senza distinzioni: poveri, bambini del popolo, donne, “mangiapreti”.

Dopo la morte dei genitori rimase per qualche anno in casa del fratello, lavorando nel suo piccolo spaccio di tabacchi in paese; di qui l’autodefinizione umilmente scherzosa di «sigaraia». Insieme alle prime compagne, attratte dalla sua personalità, in mezzo a non poche difficoltà, ristrettezze e diffidenze, iniziò a costituire il nucleo originario di quella scuola elementare di istruzione e catechesi alla quale, benché quasi illetterata e autodidatta, dedicò le sue più fervide e inventive energie, e che con gli anni crebbe e si consolidò, anche grazie all’apporto organizzativo della prima maestra diplomata, Doralice Bizzaguti, divenuta ben presto inseparabile amica e collaboratrice della Caiani; la quale veniva frattanto svolgendo un suo travagliato processo interiore di accostamento agli ordini religiosi, che si rifletté sulla storia esterna della piccola comunità di compagne.

Dopo aver trascorso nel 1893 un periodo di clausura presso le Benedettine di Pistoia, meditò successivamente di unirsi a vari ordini di religiose (Orsoline, Camilline, Zitine di Suor Elena Guerra, che fu sua consigliera per un lungo periodo, Teresiane di Campi) ma si risolse infine a fondare un nuovo e autonomo ordine, le Minime del Sacro Cuore (nome che essa diceva esserle stato suggerito in visione da San Francesco di Paola). Di tale ordine la Caiani dettò le Costituzioni, appro­vate nel 1901; la Regola e l’abito dell’ordine, fra difficoltà istituzionali perduranti, furono approvate l’anno successivo.

Grazie alla sua infaticabile attività, dall’inizio del secolo alla Casa Madre di Poggio a Caiano si affiancarono via via Case filiali nel resto d’Italia e poi all’estero (Egitto, Israele, Brasile, Cina, Sri Lanka). Ancora per l’impulso caritativo della Madre, le Minime si distinsero nell’opera di assistenza ai feriti negli ospedali militari durante il primo conflitto mondiale.

Già minata dal male, la Caiani si spense a Firenze nel 1921, e intorno a lei la fama di santità (già grande in vita, e dovuta alle numerose guarigioni e conversioni) si consolidò post mortem fino ad «esplodere» col miracolo avvenuto nel 1946 all’Ospedale di Viareggio, con la guarigione di Alice Poli, devota della Madre, morente per un tumore intestinale. Dal miracolo, accertato dalla scienza medica, prese avvio negli anni ‘50 il processo di beatificazione, che il Papa ha concluso il 23 aprile 1989 in Vaticano.

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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