Editrice Petite Plaisance

Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
HOME RECENTI CATALOGO E-BOOKS AUTORI KOINE' BLOG PERCHE' CONTATTI




Cat.n. 018

Simone Weil

Le Poesie [con nota preliminare, Introduzione e traduzione di Maura Del Serra].

ISBN 88-87296-82-0, 2000, pp. 56, formato 140x210 mm., Euro 10,00 – Collana “Egeria” [6].

In copertina: foto di Simone Weil scattata a Baden-Baden nel 1921.

indice - presentazione - sintesi

10,00

La poesia di Simone Weil

 

 

Mi sono dedicata alla traduzione delle poesie di Simone Weil negli anni 1984-’85, in accordo con un editore milanese con il quale, a lavoro ormai ultimato, sorsero disguidi e problemi che ne pregiudicarono la pubblicazione. Inclusi alcuni frammenti delle poesie di Simone nel corpus del mio testo teatrale La fonte ardente (ora in “Hystrio”, n°4, 1991), che scrissi fra il 1985 e il 1986, e in seguito parlai di queste poesie e della loro vicenda editoriale con amici e conoscenti che nutrivano interesse per la Weil: ad alcuni di loro detti anche in lettura il mio dattiloscritto ed i testi originali che mi ero fatta inviare dalla Francia.

Successivamente uscirono traduzioni italiane delle poesie di Simone Weil, a cura di altri, prima in rivista e poi in volume...

A distanza di un quindicennio, offro adesso immutate queste mie versioni weiliane, con la relativa introduzione, per condividere anche con i lettori lo slancio empatico che mi animò allora e nel quale tuttora mi riconosco.

M. D. S.

 

 

Nella breve ed intensa meditazione poetica di Simone Weil, il “femminile” carattere lirico è sempre sorretto dal “maschile” epico-drammatico: debolezza e forza, si può dire, così come lei li ravvisò, cogliendone i rispettivi poteri, nello splendido saggio sull’Iliade (L’Iliade, ou le poème de la force, 1940): una dialettica che è a sua volta inscritta nella bipolarità (di origine greca e poi giudaico-cristiana) fra pesanteur e grâce, schiacciante gravità / necessità e leggerezza spirituale liberatrice, sentimento soggettivo dell’io e verità oggettiva, matematicamente trasparente dentro e al di sopra delle contraddizioni. Simone forgia dapprima la sua energia vitale e creativa in senso stoico, secondo l’insegnamento del maestro Alain, e poi progressivamente in senso mistico, votando la propria luminosa intelligenza all’esercizio supremo e più umile insieme, la ricerca della verità assoluta, esaltando e consumando il fuoco dell’anima nella mimesi del puro bene, che di quella verità è il corrispettivo etico: e lo fa anche e soprattutto attraverso le dure esperienze fisiche affrontate negli anni ’30 (il lavoro agricolo e quello in officina), esperienze che Simone scelse obbedendo alla logica evangelica del farsi ultimi, non per essere i primi ma semplicemente per essere: per esistere davvero insieme agli altri, attraverso le prove quotidiane affrontate da lei, dai suoi amici e dall’Europa stessa, travagliata dalla grave crisi di valori che culminò nella guerra di Spagna e poi nel secondo conflitto mondiale.

Ancora dentro e al di sopra di tale bipolarità, Simone percepisce l’inafferrabile corrispondenza fra alto e basso, bene e male al loro grado estremo, spogliati della comune apparenza di mediocrità, di bene senza luce e di male senza abissi (apparenza che lei dissipa guardando il mondo e se stessa col suo intelletto radicale e radicante): ma il corpo poetico vivo di quella bipolarità resta nell’immagine-guida (ricorrente anche nei Cahiers, dove le poesie sono incastonate e quasi mimetizzate) del rapporto fra mare e barca: ne è sostanziata La mer, scritta nel 1941, che per l’assolutezza “destinale” delle immagini rammenta analoghe liriche marine e “stoiche” del nostro filosofo-poeta Carlo Michelstaedter; e i termini di tale immagine di proporzione non per caso sono di un gusto alla Paul Valéry: al poeta più finemente “geometrizzante” fra i suoi contemporanei – spesso citato con ammirazione nei Chaiers – Simone mandò infatti la sua seconda poesia, Prométhée, scritta nel 1937 (e riportata, in veste prefatoria, nell’edizione francese dei Poèmes, suivis de Venise sauvée, Paris, Gallimard, 1968, su cui è condotta la presente edizione, ma con una diversa disposizione, evolutiva, delle liriche). Valéry rimarcò il carattere troppo “didattico” della poesia inviatagli, pur lodandone la forza dinamica d’insieme ed una “volontà di composizione” rara nella poesia moderna: e una sorta di parafrasi rovesciata di Valéry, implicante la precarietà della sua clarté, è il v. 17 di Éclair: “Vent, souffle, afin qu’il dure!”, che richiama il celebre finale del Cimitière marin: “Le vent se lève ! Il faut tenter de vivre!”.

A chiarimento del rapporto simbolico, e simbiotico, fra mare e barca, come interazione fra dismisura “femminile” e misura “maschile”, natura e cultura, increato e creatura, forza primordiale e ragione, Fato e intelletto – ancora, dunque, pesanteur e grâce, che possono convertirsi una nell’altra, in gravità plasmata o trasparenza incarnata, come nel finale de La mer – c’è una notazione dei Chaiers (cito dalla traduzione italiana di G. Gaeta, Quaderni, vol. I, Milano, Adelphi, 1982, pp. 129-130): “Strumento: bilancia tra l’uomo e l’universo […] Il marinaio sulla sua barca ha un peso uguale a quello delle forze infinite dell’oceano. (Non dimenticare che una barca è una leva). Ad ogni istante il pilota – con la debole forza dei suoi muscoli sul timone e sui remi, debole, ma indirizzata – fa equilibrio a quella enorme massa d’aria e d’acqua. Niente è più bello di una barca. “ Qui la barca, con la sua valenza mitico-sapienziale dantesca ed ulissiaca che ne anima la scientificità, è ricondotta alla nozione capitale della Weil, quella del greco-cristiano metaxù: elemento intermediario, sezione aurea del reale, bilancia o ponte fra Dio e l’uomo (Simone riconobbe alla fine Cristo come il massimo di tali “ponti” o leve trasformatrici di materia-energia naturale, com’è la storia umana, in energia soprannaturale). A sua volta complementare alla sinergia mare-barca è il dittico simbolico porta chiusa (che tale appare all’angoscia della ricerca umana, alla sua desiderante coscienza infelice) e porta aperta sul paradiso del silenzio cosmico e interiore onnisignificante, quando ogni umana speranza e desiderio, con la sua carica di sogno e di irrealtà consolatoria, è bruciata: si veda la poesia Les astres, dopo la quale, nei Cahiers, è riportato il Cantico delle Creature; e si veda La porte del 1941, intensamente e originalmente tributaria del barocco spirituale del poeta elisabettiano George Herbert, la cui lirica Love, appresa durante il soggiorno a Solesmes da un giovane inglese, dal 1938 in poi fu per la Weil un vero e proprio mantra rivelatore della presenza divina; e soprattutto si veda l’autocommento implicito a La porte nel seguente passo dei Quaderni (ed. cit., vol. II, 1985, p. 47): “Pietra sul proprio cammino quando si ha fretta di passare. Non si vuole, non si accetta che essa sia là; ci si precipita su di essa e si spinge. La propria forza viene esaurita per fornirla alla finzione che la pietra non sia là. Ovvero si contempla la pietra, se stessi, il proprio desiderio di passare; la pietra è là, ma non è tutto. Questo attimo di arresto rende possibili l’azione indiretta e la leva. Chi spinge, spesso riesce; se non riesce, una volta spossato, la pietra gli sembra un assoluto, impossibile da scostare. […] L’uomo non sfugge alle leggi di questo mondo che per la durata di un lampo. Istanti di arresto, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Grazie a questi istanti è capace di soprannaturale.”

Così l’antitesi fra barbarico caos e civile umanesimo, dionisiaca illimitatezza del potere ed apollinea scienza della misura (espressa in numeri, riti, tecniche) si incarna per Simone nel mito rivissuto di Prometeo, il demiurgo redentore – un altro “ponte” – la cui sorte crocifissa ne fa la prefigurazione di Cristo: un mito classico e romantico insieme, nel suo titanismo illuminato. Ugualmente, lo scontro tra ferrea ingiustizia sociale e carità oblativa si configura nella proiezione-scissione autobiografica di À une fille riche, in cui abbondano gli echi raciniani, e che risale probabilmente ai primi anni ’30: allo stesso modo, nell’acerba ma già personale Vers lus au goûter de la Sainte Charlemagne (il gruppo studentesco di Simone liceale) e poi in Éclair, “scritta a vent’anni”, l’urto è fra l’illusione-delusione e la platonica, virile “gioia del bello” (Quaderni, I, cit., p. 323). E nel poemetto À un jour del 1938 – successivo di un anno alla traumatica esperienza di officina e al rasserenante viaggio estivo in Italia – l’antitesi è fra vivo senso creaturale del mondo, incorrotto e nuovo all’alba della sua creazione continua, e idolatria, ovvero perversione dei sentimenti legata al potere oppresivo dei vincitori, che “tuffa nel sogno” loro stessi e le vittime, provocando la caduta di valore del simbolico “giorno” e del suo dono universale di grazia, e rendendo un enigma il destino dei vinti, che vengono schiacciati, fino a diventare inerti e invisibili come oggetti, da quella forma collettiva di sventura che è per la Weil la moderna schiavitù metropolitana, che ribadisce le antiche catene del Fato degradandole in “forza”, in apparenza che incatena ed affascina (cfr. Quaderni, vol. II, p. 155). Queste laceranti antitesi o nodi del reale, sempre legati alla nozione centrale di valore, sono per la Weil colmabili – o almeno misurabili, percorribili – solo attraverso l’azione disinteressata e il costante “regime dell’attenzione”, ovvero l’ “attenzione assolutamente pura”, che è preghiera e vuoto propiziante la grazia, la gioia, il “sentimento della realtà” sottratto al tempo (cfr. Quaderni, vol. I, p. 117; vol. II, pp. 37-39): soltanto attraverso tale doloroso – perché gratuito – amore per il bene puro si può condurre la guerra contro la triplice tentazione, a cui risponde il triplice comandamento che la Weil diresse a se stessa e che verificò letteralmente con la sua vita: “Non essere complici, non mentire, non restare ciechi” (similmente il nostro poeta Arturo Onofri in gioventù si era autoammonito: “Non impórti, non sottoporti, non sovrapporti”).

In questa lotta interiore della Weil, la poesia come genere – e per prima la sua stessa poesia – è minoritaria, ma non esornativa, anzi coessenziale rispetto alle opere filosofico-sociali maggiori: una poesia palesemente strumentale e priva di eccessive preoccupazioni letterarie, ligia però alle forme e alla “morale” ritmico-metrica tradizionale, da lei considerata metodo di autodisciplina artistica (cfr. Quaderni, vol. II, p. 203): una poesia comunque testimoniale, che come l’anima stessa della Weil tesa verso lo spirito fino alla distruzione del corpo, amantissima della greca armonia eppure praticante severa dell’ascesi ebraico-cristiana  (e si veda ancora l’adolescenziale Vers lus au goûter de la Sainte Charlemagne, dove echi delle odi di Pindaro si confrontano con quelli del romanticismo cortese) è incarnazione pura e lacerata della scommessa di ogni vero poeta e artista: rendere visibile, nella misura che gli è data, la bellezza come gioia estetica, la verità come bellezza e bene, la conoscenza come amore: cioè scrivere ed operare “come un traduttore”, come “materia umana” (Quaderni, vol. II, pp. 134 e 138) che imita l’anonima creatività di Dio (ivi, p. 169) al fine di rendere davvero reale il mondo per sé e per quelli che si trovano nella condizione della soglia, del confine, e per distruggere la rete di sogno, menzogna e ignoranza (rajas e tamas nei testi delle Upanishads che la Weil studiò con René Daumal e che tradusse appassionatamente a partire dal 1941: ora in appendice ai Quaderni, vol. II). Quella rete avvolge di solito la percezione e la distoglie dal suo vero fine, che è, ancora, il fine stesso del poeta: ritrovare, dice con slancio Simone, “il patto originario fra lo spirito e il mondo attraverso la civiltà stessa in cui viviamo”, per condurre, mediante l’esplorazione e la vigilanza conoscitiva (“Una poesia insegna a contemplare i pensieri invece di mutarli”: Quaderni, vol. I, p. 155) alla “vita, funzione della piena coscienza”, come annota nel Journal d’usine ovvero Diario di fabbrica: coscienza, cioè, di quel patto continuamente tradito eppure indimenticabile (perciò vero: a-lethès) che è sostanza della nostra vita interiore.

Per la Weil la poesia insegna dunque all’anima a diventare come l’acqua e la luce, che non pesano gli oggetti ma, nella loro in-differenza, permettono loro di pesarsi da sé dopo il tempo di oscillazione a ognuno proprio, e di rivelare così la loro natura: la poesia indica all’anima la mèta più alta, la legge che guidava l’alchimia (richiamata, nel nostro secolo, dal “processo di individuazione” della psicologia analitica junghiana): diventare grazia all’interno della propria stessa gravità, contemplandone i ritmi, i rapporti e le figure di trasmutazione con purezza di intenti e fermezza di sguardo.

 

Maura Del Serra

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

Petite Plaisance Editrice
Associazione Culturale senza fini di lucro

Via di Valdibrana 311 51100 Pistoia tel: 0573-480013

e-mail: info@petiteplaisance.it

C.F e P.IVA 01724700479

© Editrice Petite Plaisance - hosting and web editor www.promonet.it