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Francesca Susini

La povertà a Pistoia nell’Ottocento.

Articolo pubblicato su Le opere e i giorni, Periodico di cultura, arte, storia – Anno IX, NN. 1-3 – Gennaio/Settembre 2006 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo], pp. 25.

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Ogni società, a prescindere dal luogo e dal tempo preso in considerazione, è caratterizzata da una vasta gamma di persone, diverse culturalmente, economicamente, politicamente e ciò determina la divisione di essa fra ricchi e poveri, intellettuali ed analfabeti, operai e capitalisti, contadini e proprietari terrieri.
Fin dalla seconda metà del Settecento la contestazione operata da illuministi ed enciclopedisti investe l’intera società dell’epoca e fa sentire la sua critica anche nel campo dell’assistenza dove si comincia ad affrontare il problema in termini radicalmente diversi.
La “carità” in quanto prescrizione religiosa dove risulta preponderante lo scopo della salvezza eterna, viene sottoposta ad una profonda critica; all’umiliazione cui sono costretti dalla beneficenza i miseri, si propone di sostituire una solidarietà laica, ispirata dalla ragione illuminata, basata sull’uguaglianza naturale degli uomini, e dalla consapevolezza delle condizioni dei bisognosi di cui vengono riconosciuti i “diritti”.1
Il tema della povertà e della relativa assistenza è principalmente una questione di ordine economico ma coinvolge anche posizioni di ordine giuridico ed etico-politico.
In Europa questo tema è divenuto di grande attualità in età contemporanea ma in Inghilterra la questione ha assunto un notevole spessore teorico con parecchi decenni di anticipo rispetto agli altri paesi.
Tra gli illustri teorici sull’argomento vi è Jeremy Bentham, che sostiene il principio di utilità secondo il quale la legge migliore è quella che persegue la massima felicità per il maggior numero.
Per raggiungere questo scopo si devono tenere presenti quattro funzioni principali della legge: provvedere la sussistenza, produrre l’abbondanza, favorire l’uguaglianza e mantenere la sicurezza. Queste non hanno pari importanza: se esse si presentano in modo conflittuale rispetto alla legislazione da scegliere, sono da considerare prioritarie la sopravvivenza e la sicurezza. L’uguaglianza deve cedere alla sicurezza, fondamento della vita, da cui dipende ogni altra cosa. La perfetta uguaglianza è una chimera, è solo possibile diminuire l’ineguaglianza.
Bentham è favorevole all’assistenza dei poveri non perché ritenesse che questi ne avessero diritto ma sulla base che troppi poveri mettono in pericolo la sicurezza. Per questo è necessario che la proprietà sia il più possibile diffusa e che fra benessere e povertà intervengano differenze non troppo rilevanti.2
L’esperienza giacobina lascia all’Europa definitivamente acquisito il concetto che l’assistenza è un dovere dello Stato, che ha il diritto di intervenire nell’amministrazione degli enti relativi, e che il povero, come tale, ha dei diritti da far valere nei confronti della collettività. Si è finalmente spezzato quel modo di pensare in base al quale il malato, l’emarginato, l’escluso era nelle migliori delle ipotesi un “oggetto” verso il quale ci si rivolgeva per poter meglio esercitare la carità, così da poter acquisire più ampie possibilità di salvezza per la propria anima.3
Con questi presupposti si arriva nel 1834 alla “Poor Law” (legge sui poveri) secondo la quale lo Stato ha l’obbligo di assistere i cittadini che vivono a livello inferiore della sopravvivenza.
Le idee del mondo inglese si diffondono nel corso del XIX secolo in tutta Europa grazie ai giornali e ai viaggi sempre più frequenti.
In Italia la solidarietà verso le persone più sfortunate fu spesso esercitata dalla Chiesa, ma in alcuni casi furono le singole persone facoltose che decisero di donare denaro e, a volte, immobili, per contribuire alla soluzione di alcuni problemi sociali che assillavano il paese.
Se in Inghilterra il movimento per le riforme sostenuto dal criterio utilitarista di Jeremy Bentham permise alle istituzioni inglesi di trovare in se stesse, senza il bisogno di rivoluzioni, la forza di riformarsi e di adeguarsi alla realtà;4 in Italia sarà necessario aspettare ancora molti anni, tanto che nel 1861 il nuovo Regno ereditò dagli stati pre-unitari strumenti di intervento pubblico in campo sociale che risultarono deboli, dispersivi e frammentari.
In Italia solo con la legge del 1890 si sancisce la necessità di un controllo statale sulle istituzioni di assistenza e beneficenza.5
A causa dell’influenza della Chiesa e della capillare diffusione delle sue istituzioni caritative mancava qualsiasi abbozzo di leggi sui poveri anche nelle forme diluite e flessibili proprie di altri paesi cattolici continentali.
L’intervento statale era quindi solo di appoggio alle iniziative spontanee della società civile. Il pensiero cattolico rimase per molto tempo ostile all’idea dell’obbligo assicurativo, secondo la loro prospettiva la previdenza doveva restare frutto di sforzi individuali ispirati ai principi cristiani della solidarietà e della responsabilità sociali, della beneficenza e del soccorso ai più deboli. Ancora alla fine dell’Ottocento risultavano limitate le realizzazioni per introdurre un più ampio ventaglio di assicurazioni pubbliche obbligatorie a causa dell’opposizione della Chiesa di Roma e del movimento cattolico, preoccupati di conservare il monopolio assistenziale ecclesiastico.6
A dimostrazione di quanto fosse arretrata l’Italia a questo proposito, possiamo ricordare che, nello stesso periodo, più precisamente nel 1881, in Inghilterra, Thomas Hill Green in una conferenza dal titolo “Liberal Legislation and Freedom of Contract”, affermò che esistevano problemi sociali che non potevano essere risolti con la carità privata o con la buona volontà individuale, ma era necessario l’intervento governativo.7
Le differenze economiche possono essere accettate se esse non implicano una maggiore o minore dignità; tutte le persone dovrebbero avere “in potenza” le stesse possibilità di migliorarsi.8
Perché questo si verifichi è necessario che anche coloro che vivono situazioni difficili trovino un appoggio che li sostenga, non li faccia “affondare”, fornisca loro i mezzi per andare avanti, senza che alcuna strada sia loro preclusa.
Nell’Ottocento mancavano ancora tutti quei diritti (obbligo scolastico, sanità, diritto al voto) che oggi tutelano i cittadini italiani, lo Stato non si preoccupa di questi problemi, con il risultato che molti vivevano in misere e poco dignitose condizioni a vantaggio di pochi fortunati a cui non mancava niente.
Fin dagli inizi del secolo la questione del pauperismo si presenta in una doppia veste che ricorda da vicino il conflitto tra fatto e diritto tuttora presente ai nostri occhi. La prima è quella che Thompson ha definito come “economia morale”. Vale a dire uno spazio pubblico su scala locale, entro il quale l’iniziativa dello Stato rimane sullo sfondo e il diritto alla sussistenza dei miserabili si inscrive tra le consuetudini caritative degli aristocratici. Il tumulto annonario non è soltanto il riflesso “spasmodico” di una impennata dei prezzi ma anche uno dei mezzi a disposizione dei poveri per ricordare questo patto sociale non scritto. L’altra faccia della povertà, invece, appartiene interamente alla sfera della politica. Il governo della città impone il controllo delle turbe di mendicanti messe in movimento dalla crisi di sussistenza dell’epoca moderna. Il questuante anziano o invalido, comunque inabile al lavoro, è meritevole di soccorso in quanto incolpevole della propria miseria; l’accattone abile al lavoro infrange il patto sociale, contravviene alla legge e compie un reato.9
In passato l’elemosina priva di controllo e disciplina demoralizzava il popolo, abituandolo ad un’inerzia passiva e parassitaria. Modernizzare la beneficenza con i criteri della conoscenza scientifica e con gli strumenti dell’autogoverno locale significava invece combattere una delle battaglie decisive nella costruzione dello Stato moderno attraverso l’estensione del senso di fraternità e comunanza dei cittadini, non secondo la burocrazia anonima di una carità legale imposta per tassa, bensì secondo la salvaguardia dei legami reciproci e diretti esistenti tra le classi sociali. L’economia caritativa doveva insomma servire a diffondere una filosofia del lavoro e della mobilità sociale; la beneficenza doveva essere vincolata alla crescita civile e all’intraprendenza individuale. Nelle formulazioni più radicali e laiciste, il pauperismo diventava il banco di prova dei nuovi governi costituzionali.10
L’assistenza sociale oggi consiste nell’insieme delle norme giuridiche, degli istituti e dell’attività svolta dallo Stato, da enti pubblici e privati, tendenti ad elevare il livello materiale e morale dei componenti la collettività. L’assistenza sociale si prefigge lo sviluppo della personalità umana: presupposto indispensabile per il progresso sociale della collettività.
L’art. 38 della Costituzione italiana ha sancito che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. In attuazione di tale principio generale, nel dopoguerra sono stati emanati numerosi provvedimenti. L’assistenza sociale viene attuata con l’assistenza ai singoli e a determinate categorie di persone (lavoratori e loro familiari, famiglie di emigrati all’estero, di detenuti, di ricoverati in sanatori, ecc.).
La complessità e la vastità dei compiti relativi all’assistenza sociale, l’indispensabile cultura e specializzazione necessaria per lo svolgimento di tali compiti hanno determinato il sorgere di scuole di Assistente Sociale, nelle quali vengono organicamente studiati i problemi inerenti alla instabilità economica, alle malattie, alla povertà, alle ingiustizie nel campo del lavoro, alla previdenza sociale, al riposo dei lavoratori, alle ragazze-madri, alla prostituzione, all’emarginazione, ecc.
Nell’Ottocento tutto questo non c’era, le persone più sfortunate potevano contare solo su se stesse o sulla bontà di uomini e donne benestanti che ritenevano giusto dare in beneficenza parte del loro avere per sollevare i miseri dalla loro triste situazione.
Questa pratica è ancora oggi in uso: si tratta del complesso di attività che enti pubblici o privati, a titolo gratuito o semigratuito, svolgono a favore delle persone che, per qualunque motivo, indipendente dalla loro volontà, si trovino in stato di bisogno. Tra queste gli inabili, cioè coloro che per età o malattia non possono procacciarsi i mezzi necessari per il sostentamento (vecchi, malati, bambini), i disoccupati e le persone che pur lavorando non guadagnano in misura sufficiente per sopperire adeguatamente al fabbisogno proprio e della famiglia o che, pur disponendo normalmente dei mezzi per il sostentamento, non sono in grado di sopperire ad eventi particolari che le colpiscono (gravidanza, malattie, ecc.).
Il concetto di beneficenza si distingue da quello di assistenza. La prima designa un’attività generica a favore degli indigenti, la seconda un’attività a favore dei particolari categorie di bisognosi (bambini, vecchi, madri nubili, famiglie di carcerati, ecc.).
La beneficenza e l’assistenza ancora oggi solo in minima parte sono svolte direttamente dallo Stato. Per lo più sono attuate dalle “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, cioè da enti non territoriali aventi carattere di fondazione (in passato denominate opere pie). Tali istituzioni, che in Italia sono circa 17.000, hanno finalità di assistenza sanitaria ed ospedaliera, di asilo per poveri, di orfanotrofio, di brefotrofio, di soccorso all’infanzia abbandonata, ecc. Su di esse l’ordinamento giuridico, allo scopo di assicurare che il fine per il quale furono istituite sia raggiunto nel rispetto della legge e di coordinare le diverse attività assistenziali e di beneficenza, ha previsto una serie di controlli di legittimità e di merito.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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