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Ebook 1056

Costanzo Preve

Note sul genocidio armeno.

Torino, 2009, pp. 35.

autore - sintesi

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L’ottobre 2009 è stato un mese importante per la storia della nazione armena, che nonostante la catastrofe del suo genocidio (il Grande Male, Metz Yeghern) è fortunatamente sopravvissuta, è viva e vitale, sia pure con una diaspora di nove milioni di armeni disseminati ai quattro angoli della terra (diaspora ricca di professionisti, medici, intellettuali e capitalisti), e confinata in un territorio nazionale sovrano che non supera un quinto del suo tradizionale territorio di insediamento, oggi abitato quasi esclusivamente da turchi e da curdi.
In questo mese è stato firmato un trattato che stabilisce per la prima volta i normali rapporti diplomatici fra la Turchia e l’Armenia. Non si tratta di un “ristabilimento”, come hanno scritto in modo dilettantesco e poco informato molti giornali, ma di una novità diplomatica assoluta.
Il presidente armeno Sarkissian ha fatto una scelta (a mio avviso intelligente e parzialmente obbligata) dolorosa (nei protocolli d’accordo manca un riferimento esplicito al genocidio armeno del 1915, e di conseguenza, manca il rituale ufficiale del “pentimento” retroattivo della nazione turca), ma anche patriottica, perchè mette in parte l’Armenia al riparo da una alleanza militare fra la Turchia e l’Azerbaigian (nazione turca, o più esattamente di turchi azeri). Certo, la Russia non permetterebbe mai (per fortuna) la distruzione dell’Armenia, ma la distensione nell’area è comunque una cosa buona. Gran parte della diaspora armena, tuttavia, protesta. Essa è composta in massima parte da figli, nipoti e pronipoti di armeni di Turchia, che subirono a suo tempo un genocidio, e vorrebbero che la Turchia facesse quello che ha fatto la Germania con gli ebrei, e cioè riconoscesse ufficialmente di essere stata responsabile del genocidio, se ne penta, e soprattutto accetti il principio di compensazione anche e soprattutto economica. Nello stesso tempo lo stato d’Israele ed il sionismo rifiutano di accettare il paragone fra il genocidio armeno e il genocidio ebraico, rivendicano l’esclusiva dell’Unico Genocidio del Novecento, e diffondono perfidamente la tesi per cui in Armenia non si trattò di un vero genocidio, ma di una serie di massacri seguiti da morti a causa di una deportazione male organizzata (è la tesi di fondo del libro di Lewy).
Come orientarsi in questo labirinto?
Nei labirinti ci si orienta se ci si porta dietro una bussola ed un filo (il famoso filo di Arianna). In questo caso il discorso dovrebbe iniziare da un accordo sul significato storico e sociale del termine “genocidio”, per cui viene perseguito un progetto di annientamento integrale di un’intera nazione (ghenos, in turco millyet, e cioè nazionalità definita in modo più religioso che linguistico). Ma qui non c’è lo spazio per discutere seriamente su questo concetto per esclusive ragioni di spazio, ed allora rimando il lettore alla voce Genocidio di Wikipedia, voce sostanzialmente completa ed articolata. Preferisco allora per brevità svolgere alcune considerazioni personali indipendenti.
Dal momento che oggi l’accusa di genocidio è diventata un’arma ideologica di legittimazione per l’interventismo geopolitico, che si maschera in genere ipocritamente per interventismo umanitario (caso esemplare, Jugoslavia 1999), è consigliabile alzarsi subito da un tavolo in cui si gioca con carte truccate, e mettersi a contare fino a quattro.
Primo, esistono i genocidi veri e propri, indipendentemente dalle loro modalità di perseguimento e dalle intenzioni dei centri di comando, per cui si mettono in atto comportamenti istituzionali tali da portare al progetto di annientamento di un’intera nazione (o etnia, o religione-etnia, o ghenos, o millyet, o gruppo sociale, o comunità, eccetera).
Secondo, esistono i progetti di espulsione etnica di massa da un dato territorio di insediamento storico di una nazione (preferisco il termine espulsione al termine “pulizia” – cleaning – che propongo di riservare ai venditori ambulanti di aspirapolveri). Queste espulsioni possono svolgersi in modo relativamente pacifico (espulsione dei bulgari dalla Grecia e dei greci dalla Bulgaria nel 1913, e dei greci dalla Cappadocia e dei turchi da Creta nel 1923), ma generalmente avvengono con contorni di massacri e di violenze, senza che questo configuri (almeno a mio avviso) un genocidio vero e proprio nel primo significato del termine.
Terzo, esistono i crimini di guerra organizzati compiuti all’interno di conflitti etnici generalizzati (ad esempio ex-Jugoslavia dopo il 1991, e questo da parte di tutte e quattro le componenti etniche coinvolte, serbi, croati, bosniaci musulmani e albanesi kosovari). A mio avviso essi, sia pure degni di punizione, non configurano propriamente né genocidi né episodi di espulsione etnica (anche se, ovviamente, di fatto ne sono quasi sempre le premesse).
Quarto, esistono i trattamenti inaccettabili di minoranze nazionali da parte della nazionalità dominante che controlla senza limiti l’apparato repressivo dello stato. Si parla allora di “genocidio” culturale e linguistico quando la minoranza oppressa non ha il diritto di coltivare la propria lingua e cultura (ad esempio i curdi nella Turchia kemalista).
Se però fosse possibile separare con nettezza queste quattro fattispecie, le cose sarebbero relativamente facili. Ma esse si sovrappongono e si incastrano l’una nell’altra, ed è questo che rende difficile il giudizio, anche a chi è in buona fede, e soprattutto non è parte in causa.
Nel caso del genocidio armeno, turchi ed armeni sono entrambi parte in causa. Chi scrive non è né un armenista né uno storico professionista. Il lettore abbia pazienza se riscontrerà in quanto scriverò disinformazioni o inesattezze. Lo assicuro che sono in buona fede. Mi limiterò per brevità ad andare al cuore dei problemi.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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