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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 103

Luca Grecchi

Corrispondenze di metafisica umanistica [con Federico Bordonaro, Giuseppe Bailone, Franco Soldani, Franco Toscani, Alberto Giovanni Biuso].

ISBN 88-7588-010-7, 2007, pp. 128, formato 140x210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [5].

In copertina: Valerio Gelli, Elisabetta, 1982.

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15,00

Questa pubblicazione raccoglie alcuni degli scambi epistolari più significativi da me intrattenuti nel biennio 2003-20041 . Ho pensato di raccogliere questi interventi in un libro per il loro contenuto teoretico. Ho ritenuto anche che il genere dell’epistolario fosse un genere da rivalutare, come quello del dialogo2 , e che la freschezza di questi scritti (grazie soprattutto alla intelligenza dei miei interlocutori) potesse servire allo scopo.
Quando ho riunito queste lettere, mi sono accorto che il tema in esse dominante era, da parte mia, la difesa della metafisica. Una metafisica intesa in maniera parzialmente differente da quella classica. La tradizione classica, specie quella aristotelica, è infatti importante e lodevole, ma per mio conto troppo imperniata sulla logica (quando non addirittura su un inconoscibile Assoluto, troppo trascendente per potersi porre come Principio dell’essere). Il pensiero che intendo difendere è invece una metafisica che definisco umanistica, in quanto tratta del sapere stabile che ha come fondamento l’uomo, inteso nella sua compiutezza di contenuti razionali, morali e simbolici.
La mia difesa della metafisica non è dunque una difesa “di scuola”. Essa3 , anzi, cerca di porsi in modo innovativo rispetto alla prevalente tradizione classica. Fin dal mio primo libro pubblicato (L’anima umana come fondamento della verità4 ), la sintesi onto-assiologica cui sono pervenuto ha condotto infatti ad un preciso nucleo teoretico: quello per cui la verità dell’essere è ciò che è in quanto l’uomo, nella sua essenza, è ciò che è.
La differenza fondamentale della metafisica umanistica rispetto alla prevalente tradizione classica, sta dunque nel pensare l’uomo come principio primo dell’essere. L’integrazione che ho tentato di apportare alla tradizione ha infatti lo scopo di pensare la verità dell’essere come conformità alla natura insieme razionale, morale e simbolica dell’uomo. Data questa composizione della natura umana, la struttura dell’essere che si costituisce si presenta come ontologica, assiologica ed analogica, e non meramente come logica, fenomenologica e teologica.
La mia ricerca è indubbiamente agli inizi, e deve per di più essere ancora ben sistematizzata. Spero di poter realizzare presto questo risultato con un testo dal titolo La struttura sistematica della verità dell’essere. Il sistema della metafisica umanistica. Se ci riuscirò, il merito sarà sicuramente in larga parte di tutti coloro che, con i loro consigli o con le loro critiche, mi avranno aiutato a proseguire nel difficile sentiero della verità.
L. G.

24 Agosto 2006

Cercherò di riassumere il senso complessivo del discorso che ho finora elaborato nei miei primi due libri. Dividerò l’intervento in tre parti: una breve introduzione necessaria ad inquadrare il tema generale della verità filosofica; una schematica delineazione del mio discorso; una conclusione sul pensiero di Karl Marx.
Si sente spesso ripetere, oggi, che la verità non esiste, e che sostenere il contrario è frutto di una illusione assolutistica. I sostenitori della tesi della inesistenza della verità si basano solitamente su una argomentazione sviluppata da Nietzsche. L’argomentazione è la seguente: gli uomini si illudono della esistenza di verità eterne per eludere, ed in qualche modo rimuovere, l’angoscia derivante loro dalla condizione mortale. Questa per Nietzsche, così come per la maggioranza della filosofia contemporanea, l’origine malata del pensiero metafisico greco.
Questa tesi ha certo un suo valore di verità, ma questo valore è limitato al piano della genesi storica del pensiero, e non a quello, ad esso superiore, della validità del pensiero stesso. È cioè corretto sostenere che la genesi storica della filosofia è spesso dovuta ad un bisogno umano di ridurre lo “spavento” nei confronti della vita e della morte. La filosofia serve infatti a comprendere la realtà, e ad orientarsi in essa. È errato però sostenere che questa origine del pensiero filosofico sia a priori incompatibile con il valore di verità assoluto di tale pensiero.
La possibilità di valutare come vere o false le relazioni che compongono l’essere è peraltro quasi universalmente ammessa anche dalla filosofia contemporanea, sebbene spesso ciò non sia esplicitato. Se diciamo, ad esempio, che “oggi piove”, questa affermazione può essere vera o falsa a seconda di come è il tempo atmosferico, e di come è definito il concetto di pioggia. Ammesso dunque che una verità dell’essere esiste, si tratta di meglio definire il criterio per poter discriminare correttamente verità e falsità, e soprattutto si tratta di allargare il campo di applicazione di questo criterio dal consueto piano fisico (verificabile con criteri logico-empirici) a quello metafisico dell’essere, più propriamente umano. Si tratta pertanto di fare l’opposto di quello che fa la filosofia contemporanea, la quale solitamente rimane nel vago del relativismo rifuggendo la ricerca di criteri di verità assoluti (o, il che è lo stesso, si rifugia nel particolarismo degli specialismi scientifici, sempre per non dover affrontare la ricerca del senso generale dell’essere).
Ritengo oggi essenziale, di fronte ai pericoli sempre più gravi che minacciano la vita dell’uomo, ricostituire quella base filosofica che è la principale piattaforma necessaria per la piena e corretta comprensione della realtà. Ogni progettualità sociale, piccola o grande che sia, ha infatti bisogno di una adeguata fondazione filosofica per porsi in modo corretto. In merito Costanzo Preve ha intitolato Verità filosofica e critica sociale un saggio di recente pubblicazione (Petite Plaisance, 2004) dedicato in parte all’analisi dei miei lavori. Il titolo è molto rispondente al mio discorso, ma desideravo qui far notare come la costruzione, filosofica prima e sociale poi, è a mio avviso ancor più importante della critica, eppure inconsciamente trascurata proprio per la mancanza di chiarezza in merito al fondamento dell’essere.
Nel mio tentativo, pur iniziale, di “rifondazione” filosofica, mi sono avvalso soprattutto delle analisi di Platone, Aristotele, Hegel e Marx. Ho cercato però di non farmi chiudere nell’interpretazione di questi pur grandi pensatori. Ho cercato cioè di elaborare in modo autonomo il fondamento teoretico umanistico presente implicitamente nel sottosuolo del pensiero di questi autori. L’ho fatto in quanto questa mancata esplicitazione costituisce una carenza “fondamentale” nella filosofia, che impedisce alla stessa di esprimere in modo compiuto la verità dell’essere. Questa mancata esplicitazione è una carenza “fondamentale” proprio in quanto relativa al fondamento. Le mie critiche a questi grandi pensatori, ed ai loro moderni epigoni, sono proprio dovute al fatto che essi non hanno saputo esplicitare quello che è presente – anche se molto implicitamente e talvolta in modo contorto – nel pensiero degli stessi. Essi non hanno cioè compiutamente esplicitato che il fondamento della verità dell’essere è l’anima umana, ossia l’essenza dell’uomo, e che senza porre l’anima come fondamento del pensiero e della vita, nessuna piena umanità è raggiungibile.
Chiusa questa breve introduzione sul problema “fondamentale” della filosofia, cercherò ora di riassumere il mio discorso teoretico, di cui argomenterò (tentando una breve “dimostrazione”) solamente le due tesi principali.

TESI 1: L’anima costituisce l’essenza dell’uomo

Parto definendo il concetto di anima. In breve essa può essere definita, con Socrate, come la struttura razionale e morale propria dell’uomo. Dato il contesto, non posso soffermarmi molto sui significati dei termini “razionale” e “morale”. Dirò soltanto che la razionalità è quella struttura di pensiero e di comportamento che avvicina l’uomo alla verità (per come poi sarà definita), e che la moralità è quella struttura di pensiero e di comportamento che avvicina l’uomo al bene (per come poi sarà definito).

La dimostrazione di questa tesi può essere svolta nel seguente modo, che richiede tre passaggi:
a) L’uomo ha come fine non la mera sussistenza, ma la propria compiuta realizzazione, ossia la felicità.
b) La felicità si raggiunge solo con comportamenti razionali e morali (comportamenti irrazionali ed immorali conducono all’infelicità, ossia alla derealizzazione dell’uomo).
c) Poiché il fine dell’uomo è la felicità (punto a), e poiché essa si raggiunge con razionalità e moralità (punto b), ne consegue che la natura dell’uomo, ciò che lo struttura in modo compiuto determinando il fine della sua vita, è razionale e morale. Essa è cioè costituita – per come è appunto stata definita – dall’anima umana.

Mostrato questo, vado ad argomentare la seconda tesi, che dalla prima consegue. Essa mi consentirà di delineare, sebbene per sommi capi, quello che io ritengo il criterio generale di determinazione della struttura sistematica della verità dell’essere, la cui comprensione è necessaria ad ogni serio pensiero filosofico e politico.


TESI 2: L’anima costituisce il fondamento della verità dell’essere

Questa tesi si può dimostrare in diversi modi. Utilizzerò quello che mi consente anche di delineare, in sintesi, la struttura dell’essere che consegue da tale fondamento. Sostenere che l’anima umana è il fondamento unico e necessario della verità dell’essere equivale a sostenere che l’essere (ossia, nella mia costruzione filosofica, la totalità dei significati umani) è ciò che è poiché l’uomo (ossia l’anima, il fondamento) è ciò che è. I significati che compongono l’essere dipendono infatti in modo necessario dall’essenza dell’uomo (unico ente in grado di costituire, tramite il pensiero, l’essere stesso). Si può dunque affermare che la verità dell’essere (che è una partizione della totalità dell’essere) è costituita dalla totalità dei significati veri, in cui per significati veri si intendono quelli che si costituiscono in conformità alla natura umana, ossia all’anima. Il bene consiste nella cura di questa conformità, ossia nella cura dell’anima.
La dimostrazione della tesi per cui l’anima costituisce il fondamento della verità dell’essere può essere svolta nel modo seguente. Occorre innanzitutto dimostrare che l’anima è il fondamento di tutti i significati dell’essere. Possiamo effettuare tale preliminare dimostrazione avvalendoci del procedimento aristotelico dell’elenchos, ossia confutando la contraddittoria della tesi da dimostrare. La contraddittoria è costituita dalla seguente tesi: l’anima umana non costituisce il fondamento della verità dell’essere. Poiché un fondamento – ossia un riferimento costitutivo stabile – è necessario affinché i significati siano realmente tali (senza un riferimento fondativo essi infatti non si costituirebbero nemmeno, per lo stesso motivo per cui un uomo non potrebbe stare in piedi sul nulla), e dunque l’essere sia quello che è, occorre, per confutare la negazione, dimostrare che nessun altro ente o relazione oltre l’anima può svolgere questo ruolo fondamentale. Si potrebbe – e sarebbe un esercizio filosoficamente utile, ma piuttosto lungo e dunque da destinare ad altra sede – esaminare una ad una tutte le soluzioni alternative che il pensiero filosofico ha finora posto come fondamento dell’essere: l’assoluto, la totalità, il nulla, il principio di non contraddizione, e quant’altro la mente dei grandi pensatori ha prodotto. Poiché questi “fondamenti alternativi” sono potenzialmente infiniti, si può però generalizzare e sostenere che ogni ente che voglia presentarsi come alternativo all’anima come fondamento, ha comunque sempre bisogno dell’anima umana per porsi anche solo, concettualmente, come ente. Questo mostra che nessuna tesi può confutare la tesi dell’anima umana come necessario fondamento dei significati, poiché ogni tesi ha bisogno dell’anima per potersi porre. Detto questo, ossia avendo dimostrato che l’anima umana è il fondamento necessario della totalità dell’essere (solo l’anima può infatti pensare – dunque “costituire” e “fondare” – i significati che compongono l’essere), l’anima è senz’altro anche il fondamento dei significati veri, poiché i significati veri costituiscono una partizione della totalità dei significati che compongono l’essere (l’essere è costituito infatti dalla totalità degli enti e delle relazioni che compongono i significati umani, veri e falsi).
Mostrato dunque – sebbene per sommi capi – che l’anima umana costituisce il fondamento della verità dell’essere, cercherò ora di svolgere un esempio per mostrare come l’esplicitazione di questo fondamento possa favorire la corretta comprensione onto-assiologica della realtà. Prenderò come oggetto di esemplificazione quello più interessante, ossia il modo di produzione capitalistico. Secondo i canoni filosofici correnti, si ritiene che “la verità” di ogni modo di produzione sia costituita dalla sua mera descrizione, la più “corrispondente” possibile. La descrizione però, in base al criterio onto-assiologico metafisico-umanistico qui esposto, è necessaria ma non sufficiente, in quanto analizza solo la effettualità storica del modo di produzione considerato (nel capitalismo la descrizione dovrebbe vertere su proprietà privata, libero mercato, processi socio-economici, ecc.). Ogni modo di produzione deve però anche essere compreso, in maniera analoga ad ogni altro ente e relazione che compone l’essere, come vero (o falso) a seconda della sua conformità (o meno) alla natura umana, e come buono (o cattivo) a seconda della cura che pone (o meno) a tale conformità. Solo così – e non con una mera analisi logico-fenomenologica – esso è compiutamente compreso.
Ebbene: basandosi sull’analisi di Marx (introduco così la parte finale di questo mio intervento), si può mostrare che il modo di produzione capitalistico non si conforma affatto alla razionalità ed alla moralità connaturate all’anima umana, la quale infatti ricerca chiarezza, armonia, comunità, amore. Il capitalismo anzi cerca di reprimere l’anima poiché essa, per sua natura, si oppone ad ogni strumentalizzazione della persona, al capitalismo invece necessaria. Il modo di produzione capitalistico può pertanto definirsi, su queste basi filosofiche, come falso e malvagio; termini che assumono, alla luce della fondazione veritativa qui effettuata, un significato preciso.
Passo quindi a trattare propriamente del rapporto fra il mio discorso ed il pensiero di Marx. Come dicevo all’inizio, anche nei confronti di Marx, come di ogni altro grande pensatore, cerco di non pormi come un mero interprete, né tanto meno come un “copista”, come una buona parte dei “filosofi” tende anche oggi a fare. Non mi interessa dunque giungere alla interpretazione autentica di Marx. Ciò non in quanto la corretta interpretazione di un autore non sia importante, ma perché, all’interno delle diverse alternative di significato possibili, è molto più importante (nel poco tempo che ci è dato di vivere) riflettere su quella più vicina – o meglio: che più avvicina – alla verità, rispetto a quella più consona a quanto si ritiene avesse voluto dire un certo autore.
Costanzo Preve, in una recensione apparsa sulla rivista Diorama letterario1 , ha svolto sul rapporto del mio pensiero con quello di Marx due affermazioni generose per le quali lo ringrazio, e che reputo nella sostanza corrette. La prima è che una fondazione filosofica veritativa coerente della critica alle modalità sociali non fu mai tentata da Marx, e che questo è il limite teorico principale del suo pensiero (non è un caso, infatti, che Marx lasci nella sostanza indeterminate le modalità sociali che dovranno sussistere nel comunismo), a cui il mio discorso teoretico cerca di sopperire. La seconda, che riporto in maniera letterale, è la seguente: “Althusser ha torto, e Grecchi ha ragione” nel sostenere che nel pensiero di Marx si può implicitamente (anche se spesso con fatica) riscontrare la presenza dell’uomo come fondamento della verità. Il Marx “umanista” non può pertanto essere eliminato a vantaggio esclusivo del Marx “scienziato”.
In un recente dialogo intercorso fra me ed Umberto Galimberti2 , emergeva fra le altre cose un curioso paradosso: Galimberti affermava di “essere marxista”, ed io sostenevo di non esserlo. Ciò è paradossale in quanto, come sa chi ha letto i miei testi e conosce le posizioni di Galimberti, io sono molto più marxista di lui. In particolare, ritengo tuttora valida la teoria del materialismo storico coi suoi corollari, e soprattutto la teoria dell’alienazione (che anch’essa, avendo Marx lasciato indefinita la natura umana – ossia l’oggetto della alienazione – andrebbe integrata con la teoria metafisica dell’anima come fondamento).
Non voglio entrare nelle motivazioni che hanno spinto Galimberti a fare questa affermazione. Entro invece nelle motivazioni che spingono me a non dichiararmi marxista. Il motivo per cui non mi ritengo “essenzialmente marxista” è il seguente: considero molto più fondamentale, per la progettazione di modalità sociali più umane, il pensiero filosofico di Platone, Aristotele ed Hegel rispetto a quello di Marx. Considero anzi, sul piano filosofico, piuttosto carente il pensiero di Marx.
Questa tesi mi procura una curiosa doppia esclusione dall’ambiente filosofico: da un lato quella comprensibile della filosofia oggi dominante, per la quale quelli citati sono autori considerati come “pericolosi” se presi sul serio (ossia, appunto, se non lasciati all’ermeneutica ed alle monografie). Dall’altro l’esclusione dall’ambito del marxismo, perché il semplice intitolare un libro L’anima umana come fondamento della verità porta chi non conosce la filosofia greca (e solitamente, salvo rare eccezioni, i marxisti non la conoscono molto bene) a considerare il mio discorso come estraneo alla critica sociale.
Personalmente di ciò mi rammarico ma non mi curo troppo, in quanto so di non poter interferire in certi processi, se non con argomenti filosofici. Occorre però prendere atto di questa pericolosa solidarietà antitetico-polare fra la filosofia relativista ed il pensiero marxista. Ambedue queste forme, infatti, ostacolano non solo la corretta comprensione delle cose, ma soprattutto la capacità di non rimanere inebetiti di fronte ad ogni richiesta di definire una progettualità sociale. Se non si è in grado di delineare fondatamente una struttura socio-economica alternativa al capitalismo, si finisce infatti inevitabilmente, anche se in modo inconscio, per adeguarsi al capitalismo stesso ed alle sue logiche, come sta dimostrando la quasi totalità della sinistra, incapace di una seria riflessione culturale.
Se non si conosce l’essenza dell’uomo, e non la si pone al centro dell’essere, non si può agire politicamente per il bene. Ciò ad ulteriore riprova di come la vera riflessione metafisica, oggi assai trascurata, sia non solo “concreta” ma addirittura necessaria.


 1 Mancano in queste pagine i carteggi più recenti, da me intrattenuti con alcuni importanti nomi del panorama filosofico italiano: Emanuele Severino, Umberto Galimberti, Enrico Berti, Carmelo Vigna, Mario Vegetti, Costanzo Preve. Ci saranno senza dubbio altre occasioni in futuro.
 2 In forma prevalentemente dialogica ho infatti realizzato, con Umberto Galimberti, Filosofia e Biografia (Petite Plaisance, 2005), e con Costanzo Preve Marx e gli antichi Greci (Petite Plaisance, 2006).
 3 Per la descrizione dell’approccio metafisico-umanistico, devo quanto meno rinviare al mio Il necessario fondamento umanistico della metafisica (Petite Plaisance, 2005) ; rinvio inoltre, per un ulteriore confronto con la metafisica classica, alla mia postfazione al libro di Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006.
 4 Petite Plaisance, 2002.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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