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Per capire l’andamento espositivo del testo di Marino Gentile Come si pone il problema metafisico bisogna anzitutto far mente locale agli anni di formazione del suo Autore; diciamo, grosso modo, gli anni venti e trenta. Erano in Italia gli anni dell’attualismo consolidato, ma anche discusso. Tutti i giovani aspiravano a misurarsi con la filosofia neoidealistica e in qualche modo si gareggiava nel confutarla. Erano gli anni in cui personalità filosofiche come Ugo Spirito, Armando Carlini, Nicola Abbagnano, Gustavo Bontadini, Vincenzo La Via e tanti altri scrivevano libri che poi sarebbero rimasti a far storia nella nostra filosofia del Novecento1. Marino Gentile aveva questo di particolare, che non era, neppure in senso simbolico (vedi il caso di Bontadini), un allievo dell’altro Gentile. Era allievo di Carlini a Pisa, e amava la filosofia dei Greci e s’impegnava come intellettuale cattolico. Studiando la filosofia dei Greci, e soprattutto Platone e Aristotele, s’era anche molto avvicinato all’umanesimo storicistico di Stenzel e di Jaeger. Questa venatura storicistica accompagnò sempre i suoi studi, e comunque influì molto sulla sua interpretazione di Aristotele. Il quale servì a M. Gentile pure per coltivare l’idea di un filosofare che fosse condotto iuxta propria principia, cioè senza coinvolgere l’universo d’esperienza che è storicamente legato alla fede cristiana. Proteggere la filosofia da indebite intrusioni fideistico-religiose, significò per lui riferirsi alla filosofia precedente l’avvento del cristianesimo, cioè alla filosofia greca classica. Perciò mise ben presto tra parentesi la filosofia medievale, trattandola sostanzialmente come una teologia. Quindi, Aristotele diventò e restò alternativo a Tommaso, che pure aveva attratto il suo interesse. Si capisce allora l’insistenza di M. Gentile nel dirsi «metafisico classico», anziché «neo-scolastico»2. Poiché in campo c’era anche l’attualismo lo abbiamo ricordato , M. Gentile dovette tener conto, come del resto tutti gli altri pensatori di area cattolica, di un fronte esterno, proprio mentre prendeva posizione sul fronte interno. È interessante notare che il rapporto con l’attualismo produsse in lui una riformulazione, in una sorta di simbolico parallelismo con Bontadini, dei due luoghi teorici principali del discorso metafisico: il punto di partenza e la struttura mediazionale. M. Gentile si concentrò molto sul primo tema, elaborando la nozione di problematicità pura; meno sul secondo, dove si limitò a una reinterpretazione dell’Atto puro aristotelico [... continua].
1 Come è noto, la letteratura sull’argomento è vasta, anche se negli ultimi tempi meno alla moda. Me ne sono occupato nei miei anni verdi. Mi limito qui a citare un vecchio libro di E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1960), Laterza, Bari, 1966 (2 voll.), che è forse ancora la cosa migliore da leggere per capire il clima di quegli anni, e a segnalare, per un aggiornamento intorno al tema, la mia Introduzione alla riedizione del vol. G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo, Vita e Pensiero, Milano 1996.
2 Ci fu una piccola schermaglia tra M. Gentile e Bontadini su queste denominazioni. I due non amavano la “neoscolastica”, ma poi si dividevano nell’etichettare le rispettive posizioni. Bontadini voleva coltivare una «filosofia neoclassica», mentre M. Gentile preferiva una «metafisica classica». Cfr. M. Gentile, I quattro gatti della metafisica e i polli di Renzo, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, 1978, fasc. III, pp. 410-420. Su questo punto, si veda anche quanto scrive E. Berti in Il richiamo alla ‘Metafisica classica’, che sta in AA. VV., Filosofie “minoritarie” in Italia tra le due guerre, a cura di P. Ciaravolo, Editoriale B.M. Italiana, Roma s.d.
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