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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 310

Salvatore A. Bravo

Le metafore nella filosofia.

ISBN 978-88-7588-174-0, 2018, pp. 288, formato 140x210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [97].

In copertina: René Magritte, La firma in bianco, 1965.

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25,00

La Filosofia è logos i cui significati sono plurimi: scegliere, discorrere, argomentare, ma anche calcolare. Il logos ha una palese matrice politica con i suoi significati che rimandano alla comunità politica: il calcolare presuppone una comunità equa e dunque con il senso del limite. Crematistica e politica, se unite, sono un ossimoro. Senza il limite la comunità è liquida, secondo la definizione-metafora di Z. Bauman, si dissolve sotto l’imperio dell’irrazionale economico, del cattivo infinito. La ragione filosofica presuppone l’isegoria e l’isonomia: l’isegoria e l’isonomia il diritto di tutti i cittadini alla parola. La Filosofia ha utilizzato, fin dalle origini, una notevole pluralità di linguaggi ed immagini. La parresia  è la matrice epistemica della Filosofia. La parola è l’essere della Filosofia. Il termine Filosofia per tradizione è associato a Pitagora, ma già al suo nascere il logos si ammanta di un’immagine nella scuola pitagorica: la tenda che separa il discepolo dal maestro. Dopo cinque anni, la tenda cade, il periodo della formazione è concluso. Maestro e discepolo non sono più tali, ma possono discorrere, il logos è tra di loro, e quindi sono amici in senso filosofico. La tenda è pertanto metafora del pensiero che deve raccogliersi in sé, deve imparare la disciplina dell’attesa e del logico pensare, prima di proferire la parola, prima che il logos si renda presente. La tenda è implicitamente simbolo della parola in quanto percorso e processo creativo. Alla parola si giunge, così come alla Filosofia si arriva, dopo che l’anima si predispone al pensiero. Dunque, ai suoi esordi la Filosofia utilizza un simbolo ambivalente. La tenda non divide, è il tempo dell’attesa: il pensiero deve sottrarsi all’immediatezza della rappresentazione percettiva per autoascoltarsi ed aprirsi, come la conchiglia racchiude al suo interno la perla, frutto di una lenta genesi. La metafora assume una polisemia di significati formativi. Essa è l’immagine che porta al concetto, il precategoriale che appare nella forma di immagine significante e che attende di essere concettualizzato. L’immagine è la configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità, ma ad essa limitrofe: è la razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. Attraverso la visualizzazione dell’immagine gradualmente la ragione vive razionalmente le espressioni percettive significanti espresse nell’immagine. La ragione è dunque vichiana, è totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico.

La metafora è polisemia semantica, pensiero che si dispone al significato. Paul Ricoeur1 fa della metafora la polisemia capace di rompere ogni semplicismo, ogni orizzonte chiuso nella monodirezione del senso, nell’analogia. La metafora attraversa i tempi e gli spazi irrigiditi dall’abitudine interpretativa per essere motivazione al pensiero divergente, per assumere significati liberatori rispetto all’attimo che non fugge per far apparire nella storia un oltre da far emergere. È meraviglia panica, mostra che il presente non è tutto e che lo spirito annida in sé possibilità inesplorate. La metafora è via d’uscita dall’inferno dell’eterno presente, dal tempo circolare-artificiale della società dello spettacolo, dalle immagini che rendono fluido il plusvalore infinito pervasivo e cattivo. Se l’Occidente ha risolto il problema della sopravvivenza biologica, la vita, ora, deve confrontarsi con la «sopravvivenza aumentata»2 secondo la definizione di G. Debord. La reificazione è la condizione normale della società dell’abbondanza. L’alienazione è demotivazione e passività, è uno stato di indifferenza mascherata da attivismo. La lunga via dell’esodo necessita che ci si ponga in termini interroganti, che si ritrovi il gusto dell’esserci mediante la parola che evochi un altro esserci e riattivi le energie sopite dall’abitudine a tollerare l’intollerabile. La metafora diviene anche mito nell’accezione di Georges Sorel.3 Essa motiva all’azione, perché fonde – senza confondere – il piano della ragione con la passione, dispone verso la temporalità futura, spinge la comunità ad essere unita, coesa alla presenza di significati non altrimenti esprimibili: essa è la speranza della prassi nella forma mediata e concreta dell’immaginazione razionale.

La metafora, di conseguenza, è strappare dalla materia la forma con cui ricreare la realtà individuale e storica. Non è un mero atto letterario, una figura retorica, ma il gesto del pensiero contro ogni riduzionismo nichilistico. La metafora “trasporta” il concetto, è la rivolta del pensiero, la materializzazione della libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente tra gli enti da dominare, senza progettualità autentica. Vico, in La Scienza nova, così definisce la metafora: «il menar fuori le forme dalla materia».4

La metafora in un’epoca di silenzio politico e filosofico, in cui ogni deviazione del pensiero, è oggetto nel migliore dei casi di un’aria di sufficienza, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo, è il trascendentale che entra nella storia. Ebbene, la metafora è attività che consente di distinguere il soggetto dall’oggetto. «La notte del mondo» come affermava Heidegger5 è il regno degli enti. Il soggetto è oggetto tra gli oggetti, merce tra merci, fonte di energia per i giochi del mercato globale. La metafora è l’uscita dallo stato di minorità, con essa il mondo diviene mondo, poiché ha ritrovato il lettore, l’essere umano nella prassi del pensiero. La metafora educa al possibile, a scorgere nella materia in formazione le forme che potrebbero essere tratte. La metafora rende viva l’esperienza personale e collettiva, in quanto da essa si traggono le bussole concettuali per discernere il presente e guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. L’atto del creare e ripensare concetti con la metafora rompe la linea del tempo con la sua sempre eguale successione dei punti: è la rottura della linea per un nuovo inizio, per l’esodo verso altri mondi storici. La povertà del mondo è nella contrazione del linguaggio e delle prospettive. La normalità con cui si accetta fatalmente il presente, senza che esso possa essere rappresentato, ricategorizzato secondo una deviazione semantica, in cui si stabiliscano punti di riferimenti, e si traccino confini con le parole e le immagini. Per Vico l’atto del creare metafore era necessario perché i bestioni abitanti delle foreste potessero introdurre la forma della cultura dove regnava l’incolto, l’informe, il fango. Forse viviamo in un’epoca di abitudine al primordiale evoluto, e quindi la metafora filosofica potrebbe essere d’ausilio ad uscire dalla foresta, dalla materialità passiva della fine della storia per ripensarla e rappresentarla per un nuovo agere.

1. Paul Ricoeur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 2010.

2. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008, pp. 68-70.

3. Cfr. Georges Sorel, Scritti politici. Riflessioni sulla violenza. Le illusioni del pro­gresso. La decomposizione del marxismo, Utet, Torino 2006. Cfr. anche: Alessandro Monchietto, Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, Petite Plai­sance, Pistoia 2005.

4. Giambattista Vico, La scienza nova [1744]: 995), in Id., Opere di Giambattista Vico. Vol. 9: La scienza nuova. 1744, a cura di P. Cristofolini e M. Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013. Recita la Degnità LXIII: «[…] la mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo; e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intender sé medesima» (Vico [1744]: 876).

5. «Il tempo della notte del mondo è il tempo dell’indigenza perché diviene sem­pre più indigente. È già divenuto così indigente da non essere più in grado di notare la mancanza di Dio come mancanza» (Martin Heidegger, Sentieri inter­rotti, tr. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997).



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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