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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 337

Giangiuseppe Pili

Anche Kant amava Arancia meccanica. La filosofia del cinema di Stanley Kubrick. Prefazione di Silvano Tagliagambe.

ISBN 978-88-7588-230-3, 2019, pp. 128, formato 140x210 mm., Euro 15 – Collana “il pensiero e il suo schermo” [4].

In copertina: Stanley Kubrick sullo sfondo di una sequenza di 2001. Odissea nello spazio. In quarta: il monolito nero.

indice - presentazione - autore - sintesi

15,00

Prefazione

di Silvano Tagliagambe

C’è un’immagine in grado di rappresentare, condensandola, un’opera cinematografica così corposa e complessa, ricca di contenuti filosofici, come quella di Stanley Kubrick? C’è, cioè, un motivo conduttore che connetta, in qualche modo, tutti i suoi film e possa fungere da filo d’Arianna tale da consentire allo spettatore di orientarsi nel problematico labirinto delle sue pellicole?

Secondo Giangiuseppe Pili, l’autore del pregevole e intrigante volume che viene proposto all’attenzione del lettore, non solo c’è, ma è ben riconoscibile: si tratta dell’incredibile lancio dell’osso bianco che, in Odissea nello spazio, si trasforma in pochi fotogrammi in un’eburnea astronave: questa non è soltanto la rappresentazione di un’idea piuttosto astratta che viene semplicemente espressa e mostrata, vivificata in un caso reale e in immagini concrete. È molto di più, come precisa subito l’autore: per capirla, infatti, noi spettatori «dobbiamo rallentare i fotogrammi e poi i pensieri per restituire tutto il passaggio che in 2001 è compresso. Ma Kubrick, nell’interezza dei suoi film, ci dà un’idea di quello che sta in mezzo che, da un punto di vista cronologico, comprende proprio tutti i suoi lavori: dagli ominidi al futuro è la natura di ciò che sta in mezzo che dobbiamo capire. Ciò che sta tra un osso e un’astronave congiunti insieme dall’idea che entrambi sono strumenti e forme degli esseri umani. La storia dell’umanità, dunque».

Aggiungiamo un ulteriore tassello a questa spiegazione, per renderla ancora più perspicua. Il filosofo, matematico e teologo Pavel Florenskij in un suo breve scritto autobiografico, nel quale parla di sé stessa in terza persona, ci dona una riflessione di straordinaria profondità che serve allo scopo:

Florenskij [...] ritiene che ogni sistema sia correlato in modo non logico, ma teleologico, e vede in questa frammentarietà e contraddittorietà logiche l’inevitabile conseguenza del processo stesso della conoscenza, che ai livelli inferiori crea modelli e schemi e a quelli superiori simboli. Quella del linguaggio dei simboli è una delle questioni fondamentali della teoria della conoscenza».1

Dunque, il processo della conoscenza ai livelli superiori si vale di simboli, e non più di modelli e schemi. Occorre capire bene che cosa comporti l’adozione di questo strumento: nella sua idea originaria, come ci insegna il pensiero platonico, è insita l’idea di frattura da ricomporre, di un confine che separa e distanzia, ma nello stesso tempo unisce attraverso la precisa rispondenza dei bordi. Un elemento chiave per comprendere il processo creativo di cui il simbolo è parte imprescindibile è infatti la tessera hospitalis la quale, allorché spezzata in una parte visibile, inalterata, e in una temporaneamente staccata, invisibile, costituisce parte sostanziale del discorso sulla creatività. Un processo artistico è infatti creativo nel senso più alto se l’idea traspare nello spazio reale, spazio che assume pertanto dimensione universale e poetica. Un’opera d’arte ben riuscita costituisce, da questo punto di vista, la parte visibile della tessera nella quale si specchia un’intera totalità culturale che, sebbene invisibile, costituisce elemento integrante di quella visibile. Il significato profondo del simbolo non sta però in una delle due parti materiali che esso congiunge, o in entrambe, bensì nel luogo del contatto e della reciproca rispondenza e perfetta congiunzione dei loro bordi, cioè nel confine immateriale che, come detto, le separa e nello stesso tempo le congiunge e le fa combaciare. È qui, nello spazio intermedio, in ciò che sta in mezzo, che si realizza la concettualizzazione dell’astratto, quella che Florenskij definisce, non a caso, «una delle questioni fondamentali della teoria della conoscenza».

Possiamo allora dire che in tutti i suoi film, in un modo o nell’altro, Kubrick lavora su ciò che sta tra l’osso bianco del passato più remoto dell’umanità e l’astronave che rappresenta il suo futuro e invita lo spettatore a colmare il vuoto tra questi due estremi, formandosene via via un’idea sempre più precisa nella sua mente in uno straordinario processo di sintesi. E l’operazione in questione è tanto più ardita in  quanto questi opposti radicali egli li vuole far pensare non in suc­cessione, dislocandoli in tempi e anche in spazi mentali diversi, ma teorizzandone e praticandone la coesistenza e la simultaneità. Ecco affacciarsi allora l’ambiguità, che giustamente viene presentata nelle pagine che seguono, come la chiave interpretativa per comprendere non solo i film del regista sul sesso, come Eyes Wide Shut e Lolita, ma anche tutte le altre sue pellicole.

Occorre fermarsi un attimo su questo punto proprio perché è cruciale, attingendo all’acuta critica di Cora Diamond del modo in cui la relazione “contenitore/contenuto” è usualmente presentata e vissuta: «Ciò che mi interessa», ella scrive, «è l’esperienza che la mente fa quando non è in grado di contenere quello che incontra. Può anche portare alla follia questo tentativo di tenere insieme nel pensiero ciò che non può essere pensato».2 L’autrice porta un esempio piuttosto significativo per illustrare questo tentativo. Si tratta di una poesia di Ted Hughes, composta alla metà degli anni cinquanta, intitolata Six Young Men.

Il poeta guarda la foto di sei giovani uomini sorridenti, seduti in un luogo che gli è familiare. Egli conosce bene la sponda ricoperta di mirtilli, l’albero e il vecchio muro della foto; i sei uomini nell’immagine avrebbero potuto sentire la valle sotto di loro echeggiare il rumore dell’acqua che scorre, proprio come fa adesso. Quattro decenni hanno sbiadito la foto, che risale al 1914. Gli uomini sono profondamente, pienamente vivi: uno di loro abbassa gli occhi timidamente, un altro mastica un filo d’erba, un altro ancora “è ridicolo, col suo orgoglio da galletto”. Nel giro di sei mesi dalla data in cui la foto era stata scattata, tutti e sei gli uomini erano morti. Nella fotografia, dunque, può essere pensata anche la morte di questi uomini: il terribile “lampeggiare e dilaniare” della guerra che si abbatte su questi sorrisi ormai spenti e marciti da quarant’anni.3

L’esperienza che la poesia di Hughes evoca è, per Diamond, un esempio di ciò che ella chiama difficoltà della realtà, il suo attrito rispetto al pensiero, quel residuo di opacità che impedisce a quest’ultimo di dominarla, di renderla completamente trasparente a se stesso e di contenerla, rappresentandola nella sua pienezza.

Questo tipo di esperienze ci fanno sentire come se ci fosse qualcosa, nella realtà, che resiste al nostro pensiero – qualcosa, forse, che è doloroso nella sua esplicabilità (e in questo senso difficile); o magari qualcosa che, nella sua inesplicabilità, ci meraviglia e ci incute rispetto. Noi sentiamo le cose in questo modo. Ma altri potrebbero semplicemente non avvertire in ciò che noi sentiamo in questo modo, quel tipo di difficoltà che ha a che vedere con la fatica, con l’impossibilità o il tormento di comprendere qualcosa fino in fondo.4

Proprio in questa difficoltà e in questo tormento, nel sentire le cose in questo modo, che impedisce alla mente di contenerle, sta il senso profondo dell’esperienza etica e di quella estetica: e proprio per questo tali esperienze esprimono e colgono

un senso di difficoltà che ci sospinge oltre quello che possiamo pensare. Tentare di pensare significa avvertire il proprio pensiero che si scardina. I nostri concetti, la nostra vita ordinaria con i concetti oltrepassano questa difficoltà come se non ci fosse; la difficoltà, se proviamo a vederla, ci scaraventa fuori dalla vita, è mortalmente raggelante […]. In quest’ultimo caso, la difficoltà risiede nell’impressione che la realtà opponga resistenza al nostro modo di vita ordinario e ai nostri modi ordinari di pensare: comprendere una difficoltà significa sentire che siamo scaraventati fuori dal nostro modo di pensare, o dal modo in cui presumiamo di pensare; significa sentire che il nostro pensiero è incapace di abbracciare ciò che sta cercando di raggiungere.5

Sentire questa difficoltà, questa separazione tra pensiero e realtà, ci fa capire che il significato profondo della nostra esperienza e del nostro vissuto che dobbiamo riuscire a cogliere si colloca sempre in un «centro decentrato», in un territorio di frontiera, in uno spazio intermedio tra il passato e il futuro, tra il dentro e il fuori. Significa comprendere d’avere a che fare con un’emozione che si sente, appunto, e che non può essere semplicemente descritta, rappresentata o pensata, proprio perché «appartiene alla carne e al sangue»,6 e dunque al corpo in tutta la sua fisicità. Tutti conosciamo questi momenti e avvertiamo che la percezione che ne abbiamo è profondamente radicata e innervata nelle nostre membra, per cui il tipo di conoscenza che ne emerge non è concettuale e astratta, bensì incarnata. Sentire il fatto che, nella poesia di Hughes, i giovani siano profondamente vivi e, contemporaneamente, assolutamente morti vuol dire rifiutare il gioco linguistico in cui non c’è contraddizione tra questi due aspetti, in quanto li si colloca, come momenti successivi, nella sequenza temporale del prima e del dopo, che smorza ed elimina ogni tensione dialettica tra di essi. Il senso estetico ed etico della poesia di Hughes si smarrisce completamente se essa viene inserita in questo gioco, che la priva della sua capacità di riferirsi a «presenze capaci di spodestare la nostra ragione»7 e di «sperimentare il nulla».8

Questo nulla è il risultato della capacità di tenere insieme, mantenendole compresenti, le due dimensioni contraddittorie della vita e della morte, del visibile e dell’invisibile, delle nostre origini più remote e del futuro più lontano, che può essere squarciato e prefigurato solo dall’immaginazione, e di proiettarle in uno spazio (il mondo intermedio tra di esse) in cui il confine che le attraversa non è la linea di demarcazione che le separa, ma l’interfaccia che prende forma, assume consistenza e ci fa sentire in un altrove che il pensiero non riesce a contenere. Il linguaggio, invece, ha questa capacità, in quanto ha la possibilità di mettere se stesso in discussione: e lo stesso effetto riesce a conseguirlo l’intera opera cinematografica di Kubrick, che si radica in un’antinomia dalla quale non possiamo prescindere e ne esplora in profondità tutte le pieghe.

A porre al centro dell’attenzione il problema filosofico che scaturisce da questa situazione esistenziale di fondo è stato Hegel in un passo di straordinaria lucidità e attualità, “L’educazione spirituale, l’intelligenza moderna”, egli scrive,

producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subìto da essa.9

Dunque, l’uomo è, nella sua costituzione profonda, un qualcosa di duale e antinomico, un impasto di istinti irriflessi e di passioni, che sembrano governarlo, di vincoli materiali di cui pare prigioniero, da una parte, e di capacità di innalzarsi alle forme più sublimi della creatività, dall’altra, liberandosi da quella schiavitù.

Per comprendere la natura di questa antinomia radicale, scrive Florenskij, basta riferirsi al nostro corpo, che è

la materializzazione del nostro istinto, della nostra vita più pro­fonda, della nostra vita primordiale, […] una pellicola che separa l’ambito dei fenomeni da quello dei noumeni. Se vogliamo, il nostro corpo può essere paragonato allo strato di terreno che separa la zona delle radici di una pianta da quella delle foglie e dei frutti. Il confine del corpo separa il buio del sottosuolo, cioè il subcosciente, dalla luce della coscienza; e con ciò essa, vicina anche al nostro spirito, divenendo simbolo viene allontanata e si fa evidente. La comprensione è allontanamento. Il corpo è la soglia concretizzata della coscienza, il limen dell’allontanamento, il pathos di grado zero della distanza. Quel che è oltre il corpo, dall’altra parte della pelle, è quella stessa tensione di autosvelamento, pur se celata alla coscienza; quel che è da questa parte della pelle è la datità immediata dello spirito, che perciò non è estrinsecata al di fuori di esso. Comprendendo mascheriamo e smettendo di com­prendere smascheriamo noi stessi.10

Le neuroscienze oggi ci dicono quanto profetiche siano state le parole di Hegel e questa rappresentazione della natura articolata, composita e contraddittoria del nostro corpo che ci è stata proposta da Florenskij. Se si prendono in esame le ricerche di Joseph LeDoux, il neuroscienziato statunitense al quale si devono gli studi pionieristici sulla connessione tra il cervello e le emozioni e sull’intelligenza emotiva, si può facilmente verificare come alla base di esse vi sia l’idea guida che per capire veramente cosa siano i sentimenti, come ad esempio la paura e l’ansia, si debba in primo luogo separarli e distinguerli dagli stimoli suscitati da essi e che generalmente li accompagnano. Esperimenti con persone esposte a questi stimoli mostrano infatti che esse non hanno alcun sentimento consapevole di paura: la loro amigdala, però, viene attivata dalla minaccia e dà il via a reazioni corporee inconsce come l’aumento della sudorazione, l’accelerazione del battito cardiaco e la dilatazione delle pupille; ciò mostra che la rilevazione della minaccia e la risposta connessa sono indipendenti dalla consapevolezza conscia: sono manifestazioni corporee che non presuppongono l’intervento della coscienza.

Sentimenti, come quello di paura, sorgono quando acquistiamo coscienza del fatto che il nostro cervello ha inconsapevolmente rilevato un pericolo. Tutto inizia quando uno stimolo esterno, elaborato dai sistemi sensoriali del cervello, è classificato a livello non consapevole come una minaccia. Gli output dei circuiti di rilevamento delle minacce innescano un aumento generale dello stato di eccitamento del cervello mentre i segnali provenienti dalle risposte comportamentali e fisiologiche del corpo sono inviati al cervello, dove diventano parte della risposta non conscia al pericolo. L’attività cerebrale viene quindi monopolizzata dalla minaccia e dagli sforzi per affrontare i danni che essa preannuncia.

La minaccia aumenta la vigilanza: l’ambiente viene monitorato per capire perché siamo eccitati in questo modo specifico. L’attività cerebrale correlata a tutti gli altri obiettivi (cibo, sesso, denaro, autorealizzazione, ecc.) viene soppressa. Se, grazie alla memoria, il monitoraggio ambientale rivela che sono presenti minacce “conosciute”, l’attenzione si focalizza su questi stimoli che sono consciamente “colpevoli” dello stato di eccitamento. La memoria ci permette quindi di sapere che “paura” è il nome che diamo a esperienze di questo tipo: a partire dall’infanzia costruiamo modelli di ciò che somiglia all’essere in uno di quegli stati che etichettiamo con la parola “emozioni”. Quando i diversi fattori o ingredienti sono integrati nella coscienza, si ha un’emozione, nello specifico il sentimento conscio di paura. Ma questo può avvenire solo se il cervello coinvolto ha i mezzi cognitivi per creare esperienze consce e interpretarne il significato e il contenuto in termini di implicazioni per la propria sopravvivenza e il proprio benessere. In caso contrario, le risposte del cervello e del corpo sono una forza motivazionale inconsapevole che si esprime sotto forma di risposte automatiche agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno che dirigono il comportamento con l’obiettivo di rimanere in vita, senza l’intervento di un sentimento di paura vero e proprio come risultato di un’elaborazione secondaria di queste risposte, frutto appunto della capacità di interpretarne il significato e il contenuto e di farne oggetto di una riflessione al livello della coscienza. Solo se si verifica la presenza di questo specifico sentimento come parte del processo complessivo si può parlare di ricorso al cervello conscio, che apre le porte a una strategia per perseguire la sopravvivenza e per prosperare, non limitata all’esperienza in atto e al caso particolare, ma che include anche la capacità di prevedere come comportarsi in circostanze analoghe e di evitare situazioni che espongano ai rischi già sperimentati.

Ciò che chiamiamo emozioni sono dunque sentimenti consci assemblati cognitivamente, vale a dire costrutti psicologici elaborati a partire da reazioni corporee inconsapevoli e da meccanismi e automatismi per rilevare e rispondere alle minacce. I sistemi cerebrali che rilevano gli stimoli minacciosi e controllano le risposte comportamentali e fisiologiche indotte da questi stimoli non devono pertanto essere descritti in termini di paura come sentimento conscio.

Nel loro insieme, i risultati di queste ricerche si sono dimostrati fondamentali per individuare l’origine delle nostre emozioni e i meccanismi che le regolano, nonché per chiarire numerosi aspetti dei disturbi neurologici o psicologici della sfera emotiva e per trarre indicazioni preziose per la loro terapia, in particolare nel caso dei disturbi d’ansia (un’emozione molto vicina alla paura).

Così LeDoux riepiloga e spiega il proprio itinerario di ricerca:

Ho iniziato il mio lavoro sulla base neurale della paura condizionata stabilendo quali sono le aree del sistema uditivo necessarie perché lo SC (Stimolo Condizionato) uditivo susciti le risposte di congelamento e di aumento della pressione sanguigna. Quindi, sfruttando tecniche di tracciamento delle connessioni anatomiche, ho individuato i possibili obiettivi di uscita delle principali aree di elaborazione uditiva. Uno degli obiettivi suggeriti dagli studi di tracciamento era l’amigdala. Quando abbiamo leso o scollegato dal sistema uditivo questa zona, le risposte di paura condizionata sono venute meno. All’interno dell’amigdala abbiamo anche trovato una zona che riceve l’input dello SC uditivo (l’amigdala laterale, LA) e si collega a una zona (l’amigdala centrale, CeA) che trasmette le uscite ad aree-bersaglio a valle che controllano, in modo sepa­rato, le risposte condizionate di congelamento e quelle pressori. Inoltre, nella zona di ingresso della LA siamo stati in grado di individuare le cellule che ricevono sia lo SC uditivo sia la scossa dello SI. Questa è stata una scoperta particolarmente importante perché si pensava che l’integrazione di SC e SI a livello cellulare fosse necessaria affinché si realizzasse il condizionamento alla paura. Dopo avere identificato il circuito e i cambiamenti cellulari coinvolti nel processo, ci siamo rivolti ai meccanismi molecolari che nella LA sottostanno all’apprendimento e all’espressione della paura condizionata, molti dei quali erano stati scoperti da Kandel e altri negli invertebrati.11

A suo giudizio quindi l’elaborazione dell’amigdala è automatica e non richiede né la consapevolezza conscia dello stimolo né il controllo conscio della risposta. Questa sua convinzione è suffragata e corroborata da numerosi studi che mostrano come l’amigdala sia in grado di elaborare le minacce e di innescare risposte condizionate senza che una persona sia consapevole dello stimolo reale e senza che provi alcun sentimento di paura. Il sentimento vero e proprio è invece il risultato dell’intervento successivo di un livello di consapevolezza assente in questa prima fase.

Eccoli dunque l’impasto, la coesistenza e l’ibridazione di istinto e ragione, di automatismi incontrollati e di coscienza che caratterizza l’essere umano e che si manifesta nel modo stesso in cui si sviluppano la sua sfera emotiva, l’intero impianto dei suoi sentimenti. Quell’im­pasto, quella coesistenza e quell’ibridazione che costituiscono il filo conduttore dell’intera filmografia di Kubrick, per il quale, come scrive Pili, l’essere umano è un «gomitolo di infiniti spettri animali, avrebbe detto un Cartesio post-meditazioni metafisiche, è una complessità inscindibile». A un estremo l’osso bianco:

la violenza è perdurante, l’eterna sostanza di una storia iniziata milioni di anni fa. Il sesso è una delle spinte insopprimibili degli esseri umani. Né la violenza né il sesso si possono estinguere con la sola forza della ragione.

Dall’altra l’astronave,

uno strumento di conoscenza. È vero, lo abbiamo compreso, che un’astronave è uno strumento e, in quanto mezzo, è tra due estremi: noi e il nostro obiettivo. Esso è il punto intermedio tra l’uomo e il suo sogno. E il sogno dell’uomo non è la violenza e non è neppure il sesso.

Il fatto che l’osso bianco e l’astronave non possano essere pensati in successione, come momenti della storia umana che appartengono a due sue fasi separate, a due anelli differenti della stessa catena, legati da una relazione cronologica contraddistinta da un “prima” e da un “poi”, ma vadano considerati insieme, come coesistenti e inestricabilmente connessi, ci fa capire perché la violenza non possa cessare con la raffinazione dell’intelletto, la brutalità non diminuisca, ma si trasformi con la sofisticazione della mente.

Nonostante ciò, sostiene Pili, «Kubrick, era uno che credeva nella ragione, pur con tutti i suoi limiti». Egli

non è un filosofo che mette in dubbio le migliori qualità della na­tura umana. Ma è feroce e spietato con i suoi limiti che, appunto, sono molti e spesso tali da oscurare anche la sua parte migliore. L’essere umano ricerca l’ignoto come categoria del possibile che apre ogni genere di speranza. Come in Kant, tale speranza è generica, non esplicita in forme definitive, chiare e, quindi, rassicuranti.

C’è sempre il dubbio di una alternativa non altrettanto gradevole. Ma, come dice Kant nella prima critica, è questo quello che ci è dato, in quanto esseri razionali finiti. Questo attiene alle nostre capacità cognitive, alla nostra possibilità di dominare il mondo attraverso la nostra conoscenza, fornita dal nostro intelletto e dalla nostra ragione. Esseri limitati come siamo, l’ignoto è la forma della possibile salvezza. Ma c’è un altro punto su cui Kant e Kubrick si toccano profondamente. Nessuno è in grado di determinare con piena certezza, in base a un qualsiasi principio, che cosa effettivamente lo renderà felice: perché, per questo, sarebbe necessaria l’onniscienza. È impossibile, quindi, agire secondo principi determinati in vista della felicità.

Uno dei passi filosofici in cui si esprime meglio e nel modo più esplicito questa concezione filosofica è quello in cui il soldato Joker in Full Metal Jacket spiega perché, contrariamente ai suoi commilitoni, ha avuto il coraggio di uccidere il cecchino donna che chiedeva pietà: «Io volevo soltanto fare riferimento alla dualità dell’essere umano, signore», spiega al suo superiore. E alla domanda di questi, che gli chiede che cosa significhi questa sua affermazione, risponde con sicurezza: «L’ambiguità dell’uomo, una teoria junghiana, signore».

Questo riferimento a Jung merita di essere chiarito e approfondito. Per comprendere in che senso si possa e si debba parlare di ambiguità dell’uomo occorre partire da una delle più intense definizioni che Jung dà del Sé:

[…] la dissoluzione della personalità umana, ottenuta rendendo coscienti i suoi contenuti, ci riconduce naturalmente a noi stessi, vale a dire a qualcosa che è e che vive, teso tra due immagini del mondo e le loro forze oscuramente intuite, ma chiaramente sentite. Questo “qualcosa” ci è estraneo eppure vicinissimo, coincide con noi eppure non è da noi conoscibile, è un centro virtuale di costituzione talmente misteriosa che può esigere tutto, la parentela con gli animali e con gli dei, con i cristalli e con le stelle, senza farci meravigliare e senza suscitare la nostra disapprovazione. Questo qualcosa esige effettivamente tutto ciò, e noi non abbiamo in mano nulla da opporre con qualche diritto a questa richiesta, ed è perfino salutare ascoltare questa voce. Io ho definito questo centro come il Selbst.12

Con il passaggio dall’«Io» al «Sé» Jung evidenzia dunque in modo esplicito e rafforza l’idea dell’uomo come un essere antinomico, articolato in due fasi, una non individuata e impersonale, coincidente con l’inconscio, che non è per nulla un qualche cosa di inerte, che se ne stia semplicemente lì, bensì è una componente che partecipa a pieno titolo alla vita dell’individuo e che subisce, in relazione a ciò, modificazioni interne e a sua volta incide sugli equilibri interni della psiche umana; e l’altra individuale e personale.

Queste due parti sono ovviamente collocate in tempi diversi: la seconda è fortemente radicata nel presente, nel «qui» e «ora» del vissuto di ogni singolo uomo; la prima invece è un anello del tempo lungo dell’evoluzione umana, ed è l’eco di fenomeni e processi remoti, che tuttavia non può essere in alcun modo considerata un passato cronologico, che a un certo punto si realizza e si risolve nell’individuo, in quanto parlare, come fa Jung, di “centro virtuale” tra queste due componenti significa sostenere che esse coesistono e sono irriducibili l’una all’altra.

Ciò rende subito chiaro il fatto che quello che chiamiamo «individuo» è in effetti una «coppia», formata dal residuo di una fase originaria, preindividuale e indeterminata, che ha origini lontane, e da qualcosa che è invece ancorato saldamente all’oggi. Tra questi due elementi della coppia s’instaura un equilibrio metastabile, carico di possibilità e alternative diverse alle quali il soggetto è continuamente aperto ed esposto, per cui esso risulta sempre portatore di ulteriori possibili identificazioni.

Nel processo dinamico che ne scaturisce, un ruolo fondamentale è svolto dal confine tra le due componenti, che non è, ovviamente, qualcosa di materiale e non “sta” da alcuna parte, non può essere reperito nel piano dell’osservazione e dell’esperienza data e tuttavia struttura quest’ultima, insiste nell’esperienza pur senza essere presente in essa. La sua è una funzione, che Jung qualifica con l’aggettivo «trascendente», osservando che con questa definizione

non si deve intendere niente di misterioso, di sovra sensoriale o di metafisico per così dire, bensì una funzione psicologica che, data la sua natura, può essere paragonata a una funzione matematica che ha lo stesso nome ed è una funzione di numeri immaginari e reali. La “funzione trascendente” psicologica risulta dall’unificazione di contenuti “consci” e contenuti “inconsci”.13

Ovvero, come preciserà in seguito,

fare i conti con l’inconscio comporta un processo o, a seconda dei casi, anche una sofferenza o un lavoro, cui è stato dato il nome di ‘funzione trascendente’, trattandosi di una funzione che si fonda su dati reali e immaginari o razionali e irrazionali, e che getta quindi un ponte sul solco che separa la coscienza dall’inconscio. È un processo naturale, una manifestazione dell’energia che si sprigiona dalla tensione tra i contrari, e consiste in una successione di processi fantastici che emergono spontaneamente in sogni e visioni.14

È interessante e importante rilevare che qui, proprio nel nucleo fondamentale della sua concezione della psiche, Jung si riferisca in modo manifesto a una terminologia kantiana:

La funzione trascendente non procede senza meta, ma conduce alla rivelazione dell’uomo essenziale. Dapprima è un puro e semplice processo naturale, che in certi casi si svolge senza conoscere e senza partecipazione, e deve anzi affrontare la resistenza dell’individuo imponendosi con la forza. Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità originariamente contenuta nel germe embrionale in tutti i suoi aspetti. È l’attuazione e il dispiegarsi dell’originaria totalità potenziale.15

Per capire questo riferimento a Kant occorre ricordare la distinzione da lui operata tra la sfera della Realität, categoria della qualità, che designa la totalità della determinazione possibile di una determinata cosa, e i concetti di Dasein, di Existenz e di Wirklichkeit, cioè l’effettualità, come dominio del “qui e ora”. È chiaro che la prima, proprio perché si riferisce al possibile, allo stato puro, è fuori dal tempo: tuttavia non può essere considerata ininfluente ai fini del reperimento e del consolidamento di un ordine all’interno di esso, in quanto progettare (un nuovo ordine, ad esempio, o una nuova forma di vita) significa

riuscire a vedere e a pensare altrimenti l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e nel tempo) cogliendo le alternative della sua modalità di presentazione, insite nel suo specifico orizzonte di realtà. Così facendo non si esce, ovviamente, dalla totalità della de­terminazione possibile dell’oggetto medesimo, cioè dalla sua Realität: si va invece al di là dello specifico modo in cui si è abituati a considerarlo sulla base delle modalità percettive usuali ed egemoni.

Questo approccio rende chiaro che la Realität, la «totalità della determinazione possibile della res» può essere assunta in qualità di oggetto della conoscenza: per farlo bisogna però passare dal concetto di confine tra mondo fenomenico e sistema delle idee come rigida linea di demarcazione a quello di “barriera di contatto”, vale a dire di interfaccia e zona cuscinetto di collegamento tra ambiti distinti, nel caso specifico tra la Realität medesima, appunto, e l’Existenz o effettualità.

Per ritornare a Jung ciò significa, concretamente, che l’equilibrio metastabile che si stabilisce tra l’indeterminato e il preindividuale, da una parte, che nel Sé si manifesta sotto forma anche di inconscio collettivo, e la componente conscia, individuale e personale, è aperto alla totalità della determinazione possibile della persona: proprio perché ambisce a raggiungere questa totalità potenziale, la funzione trascendente deve permettere agli opposti di dialogare, di confrontarsi e quindi di incontrarsi su un piano di pari dignità, evitando ogni rischio di sbilanciamento, che per Jung rappresentava la base per la patologia.

Ecco perché per “centrare” questo obiettivo occorre impostare e sviluppare un dialogo intrapsichico in cui il confine abbia una duplice funzione: quella di distinguere ma anche quella di unire ciò che è conscio e ciò che è inconscio. Solo così la funzione trascendente potrà produrre un continuo scorrimento della linea di separazione/collegamento tra i due ambiti coinvolti. Se con il dialogo si verifica l’oltrepassamento delle distinzioni già date, ciò non significa che la funzione trascendente perda il carattere della distinzione: attraverso di essa affiorerà un nuovo atteggiamento sia della coscienza, sia dell’inconscio.

La nuova coscienza che emergerà alla fine di questo processo, tuttavia, non saturerà né esautorerà mai l’inconscio: «questa funzione si chiama trascendente perché rende possibile passare organicamente da un atteggiamento all’altro, vale a dire senza perdita dell’inconscio».16

Possiamo allora capire perché e in che senso Pili consideri Kubrick un kantiano cinematografico. L’attenzione che egli rivolge costantemente alla dualità`, all’ambiguità e alla compenetrazione di tendenze opposte è anche l’espressione di una profonda visione antropologica, storica e sociale dell’essere umano profondamente segnata dal tentativo di rappresentare la realtà nella sua totalità. Per questo il suo è un “cinema della totalità”. Kubrik, troviamo scritto in una delle pagine che seguono,

ritiene che la realtà sia al di fuori del soggetto e vada investigata con ogni mezzo possibile. Egli non propone mai una visione del mondo trascendente, perché è di quei pensatori che ritiene la realtà bastevole a se stessa. E allo stesso tempo, come abbiamo visto, egli è anche un pensatore del limite. Ovvero, nonostante il fatto che l’uomo si giochi tutta la sua partita all’interno di questo mondo, egli ha la necessità di oltrepassare i suoi stessi confini, come la ragione tende a oltrepassare i suoi. Così, il risultato non è liberatorio perché non c’è un’altra realtà da favoleggiare o da scoprire ma, allo stesso tempo, mostrando i limiti delle possibilità umane, mostra anche i limiti stessi della nostra concezione della realtà. E allora, come Kant prima di lui, anche Kubrick lascia sempre aperta la porta all’inatteso, alla possibilità della speranza. Non una speranza precisa, non una speranza chiara e concreta, una speranza senza miracoli e senza salvatori. Ma una apertura dell’intelletto verso una salvezza possibile che non è un’utopia ma una vita pienamente umana ai limiti della natura umana.

Certo, Kubrick è feroce con l’umanità. Non lascia passare nulla: e lo fa proprio perché il suo sguardo è costantemente rivolto alla totalità di aspetti, che non si possono escludere o sottacere senza perdere qualcosa e senza ingannare qualcuno. Per questo, come sostiene ancora Pili, egli

non è letteralmente capace di dedicare un film esclusivamente agli spiriti angelici dell’anima umana, perché questi sono intrinsecamente legati con le pulsioni violente del suo intimo. E quindi il dilemma morale è l’espressione di una costante natura ambivalente che lotta non solo per stare al mondo ma anche per riuscire ad esserne al di là e non esserne del tutto mai capace.

Dietro questa intransigenza, dietro questa ferocia nel rappresentare e denunciare senza sconti tutte le debolezze umane c’è però, ancora una volta, il miracolo della trasformazione, in pochi fotogrammi, dell’osso bianco in un’eburnea astronave: prodotto di incomparabile forza ed efficacia di quel linguaggio dei simboli che, secondo Florenskij, come si è visto, è una delle questioni fondamentali della teoria della conoscenza. Questo simbolo ha una sola interpretazione possibile: un’incondizionata ammirazione per la forza e la potenza di quella ragione che, pur avendo i suoi limiti, ci rende comunque capaci di vincere quella polvere da dove essa stessa è venuta dove non potrà evitare di tornare.

Anche questa conclusione è in profonda sintonia con la filosofia di Kant: in particolare con quella fase della riflessione di quest’ultimo che precede immediatamente la sua rivoluzione copernicana, in cui centrale e imprescindibile è il ruolo del corpo. Mi riferisco, in particolare, alla Vorlesung Kants über Ethik, pubblicata nel 1924 da Paul Menzer, che raccoglie le lezioni di etica da lui tenute nel 1775-81, alla vigilia della prima edizione della Critica della ragion pura, laddove egli scrive:

il corpo costituisce la condizione assoluta della vita, a tal punto che noi non possiamo avere un’idea di un’altra vita se non mediante il nostro corpo e non ci è possibile usare della nostra libertà se non servendoci di esso [...]. È mediante il corpo che l’uomo ha un potere sulla sua vita.17

Per questo il corpo va accettato per quello che è, con i suoi limiti, i suoi vincoli, i suoi gravami, i vizi di cui è portatore: ma anche con le sue potenzialità presso che inesauribili. Per rendersene conto bastano alcuni numeri, evidenziati dai risultati delle neuroscienze: il nostro cervello ha all’incirca 100 miliardi di neuroni, ognuno dei quali possiede in media 1.000 sinapsi che lo collegano ad altri neuroni: centomila miliardi di connessioni cerebrali per ognuno di voi. Ciascuna delle sinapsi può trovarsi in media in dieci possibili stati funzionali, per cui il numero dei possibili stati cerebrali raggiunge il milione di miliardi (1015). Questi numeri ci devono far capire cosa sia il nostro cervello e quali siano le sue possibilità: come ha acutamente osservato Italo Calvino, uno che il suo cervello lo ha saputo usare bene, è un’immensa scacchiera in cui sono possibili talmente tante mosse che neppure in una vita che durasse quanto l’universo s’arriverebbe a giocarle tutte.

Dentro ciascuno di noi c’è dunque l’infinito, un microcosmo paragonabile per complessità al macrocosmo dell’universo. L’uomo è libero di usare questa complessità infinita come vuole: per provare vertigine e stordimento, come il sole che illumina tutto, troppo, di cui parlava Platone nella Repubblica, sottolineando che proprio per questo non lo si può guardare a lungo; per accecarsi artificialmente, come raccomandava Freud, al fine di poter concentrare tutta la luce su un punto oscuro e vedere di più, «gettando un raggio di intensa oscurità all’interno, in modo che qualcosa sinora passato inosservato alla luce abbagliante dell’illuminazione possa luccicare ancor più in quella oscurità»; o per rimanere confinato nell’oscurità di quella caverna che è al centro dell’omonimo mito platonico.

Insomma, ci dice Kubrick, si può usare il cervello per creare e in­novare, seguendo le orme di questi maestri del pensiero; o ci si può servire di esso soltanto per copiare e confermare, scegliendo di essere un volgare replicante, uno che trascorre la sua vita intrappolato in una costante coazione a ripetere ciò che è già stato detto e fatto. Come diceva con la sua graffiante e dissacrate ironia Søren Kierkegaard: «Scrivere un libro è oggi la cosa più semplice di tutte, qualora se ne prendano secondo un costume consolidato 10 anteriori sulla stessa materia e da tutti insieme se ne tragga un 11° sulla stessa materia».

Del libro che segue di Giangiuseppe Pili tutto si potrà dire e pensare fuorché che sia un prodotto di questo costume.

1 P.A. Florenskij, “Avtoreferat”, in: Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di N. Valentini e A. Gorelov, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 8-9.

2 C. Diamond, The Difficulty of Reality and the Difficulty of Philosophy, «Partial Answers», n. I, 2003, pp. 1-26 (tr. it. L’immaginazione e la vita morale, a cura di P. Donatelli, Carocci, Roma 2006, p. 176 (il corsivo è mio).

3 Ivi, p. 175.

4 Ivi, pp. 176-177.

5 Ivi, p. 184 (i corsivi sono miei).

6 Ivi, p. 196.

7 Ivi, p. 194.

8 S. Weil, La personalità humaine, le juste et l’injuste, in «La Table Ronde», n. 36, 1950, poi in Écrits de Lontre, Gallimard, Paris 1957 (tr. it. La persona e il sacro, in Oltre la politica, a cura di R. Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996 p. 85.

9 G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino, 1972, p. 65.

10 P.A. Florenskij, Lo strumentario, 206.

11 J. Ledoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, Raffaello Cortina, Milano 2016, p. 57.

12 C.G. Jung, “L’ Io e l’inconscio”, in Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983, p. 233.

13 C.G. Jung, “La funzione trascendente”, 1916 (manoscritto), 1957-1958 (prima edi­zione) in Id., Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 83.

14 C.G. Jung, “La psicologia dei processi inconsci”, Edizione definitiva, “Psicologia dell’inconscio”, in Id., Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1991, p. 81.

15 Ivi, p. 111 (i corsivi sono miei).

16 C.G. Jung, La funzione trascendente, op. cit., p. 88.

17 I. Kant, 1924. Eine Vorlesung Kants über Ethik Philosophia practica universalis, P. Menzer (ed.), Rolf Heise, Lenght, 1924. Raccoglie le lezioni di etica tenute da Kant nel 1775-81, alla vigilia della prima edizione della Critica della ragion pura. Trad. italiana a cura di A. Guerra, Lezioni di etica, Laterza Roma-Bari 2004, p. 270.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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