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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 391

Costanzo Preve

Il marxismo e la tradizione culturale europea. Seconda edizione, riveduta e corretta.

ISBN 978-88-7588-327-0, 2021, pp. 304, formato 140x210 mm., Euro 25 – Collana “Divergenze” [76].

In copertina: R. Magritte, Il liberatore, 1947, olio su tela, Los Angeles County Museum of Art.

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25,00

IMBARAZZO, RIMOZIONE ED IPOCRISIA

NELL’ELENCAZIONE DELLE RADICI DELLA CULTURA EUROPEA DEL VENTESIMO SECOLO

Esiste uno specifico gioco a proposito dell’elencazione completa delle radici storiche e delle componenti essenziali della tradizione culturale europea che potremmo chiamare il gioco delle addizioni e delle sottrazioni, o più esattamente delle aggiunte e delle omissioni. In altre parole si potrebbe dire così: dimmi che cosa intendi aggiungere e che cosa intendi invece omettere e ti disegnerò il profilo culturale che ti porti addosso, consapevolmente o meno!

C’è chi, come Alain de Benoist in un suo recente libro, inizia addirittura con le tradizioni pagane, preromane e precristiane, individuando in esse il substrato simbolico e materiale della posteriore tradizione europea. Chi invece non intende seguire le indicazioni di de Benoist, oppure la strada indicata da Dumézil, e J. Haudry e gli altri studiosi delle origini della componente etnica e culturale indo-europea, inizia con la filosofia e l’arte greca, con il diritto romano, con la religione cristiana, con il rinascimento italiano ed europeo, con la rivoluzione scientifica seicentesca, con l’illuminismo, via via fino all’epoca moderna ed ai grandi federalisti del novecento appena trascorso. La diatriba tutta politica e per nulla culturale se ed in che misura devono essere espressamente nominate le cosiddette “radici cristiane” non deve interessarci e devo ammettere anche che non è mai riuscita ad interessarmi. Da un lato, do assolutamente per scontato che esistano radici storiche e culturali cristiane in Europa, e negarlo mi sembra assolutamente sciocco. Dall’altro, so bene che in questa congiuntura storico-politica avvelenata la citazione esplicita di queste “radici” (che, ripeto, per me sono assolutamente ovvie) è un’arma occidentalistica di battaglia cosiddetta “di civiltà” contro il mondo musulmano e forse in prospettiva addirittura contro il mondo eurasiatico e cinese. Mi sia allora consentito, come vecchio professore di filosofia e storia per ben trentacinque anni (1967-2002), di “chiamarmi fuori” da questa batracomiomachia guerresca. Preferirei dichiararmi coreano o thailandese piuttosto che “arruolarmi” in uno scontro di civiltà fra il cosiddetto Occidente e i suoi cosiddetti “nemici”.

Lasciamo allora questo terreno avvelenato e minato, indegno tra l’altro di una seria discussione sull’identità culturale europea, per tornare alla discussione sulle componenti storiche della tradizione di questo nostro continente. E a questo punto, se qualcuno mi elenca una serie di “radici”, mi viene da chiedere, in modo falsamente ingenuo: mi scusi, ma fra queste componenti ci sono anche K. Marx e il marxismo?

So bene che questa domanda suona strana, fastidiosa ed imbarazzante per le ben pulite orecchie del Cittadino Europeo Politicamente Corretto (CEPC). Ma come, mi dirà, non sa ancora che il marxismo è morto? Non le bastano i crimini compiuti dal comunismo in Europa nel Secolo Breve, crimini che non hanno neppure avuto una Norimberga Simbolica, come almeno hanno avuto i crimini di A. Hitler Non si rende conto che meno si parla di marxismo e meglio è, perché la gente vuole guardare al futuro, un futuro che sta nell’irreversibile processo della globalizzazione, e non certo farsi inchiodare ad ideologie ad un tempo utopiche e sanguinarie, che tutti desideriamo lasciarci alle spalle?

Conosco perfettamente questo ritornello. Eppure, se ci facciamo spaventare della triplice presenza dell’imbarazzo, della rimozione e dell’ipocrisia tanto vale che ci limitiamo alla chiacchiera sugli eventi sportivi o sulla retorica dei diritti umani da imporre con bombardamenti dissuasivi a popolazioni-canaglia. In questo breve saggio, che di per sé non ha particolari pretese e non rivendica neppure una particolare originalità (chi scrive ha già esposto altrove in modo più analitico ed argomentato gran parte dei temi qui riuniti), ho deciso di nuotare controcorrente, sport di cui sono peraltro un praticante assiduo da molti decenni ormai, e di sostenere che sì, sia il pensiero di Marx sia gran parte del marxismo critico successivo sono (o dovrebbero essere) a tutti gli effetti componenti culturali della tradizione europea.

Ma, caro signore, mi dirà educatamente il CEPC sopraccitato, il marxismo è morto! Davvero? – risponderò io – ma come fa a saperlo? Ma lo dicono tutti! Risponderà il nostro CEPC. Ma chi sono questi “tutti”? – gli chiederò. Ma come, tutti sono i tutti! – dirà il CEPC, che inconsapevolmente farà riferimento alla nuova identità europea, la Pantautologia. Alla fine, dopo un faticoso dialogo socratico, si scoprirà che i Tutti sono, nell’ordine:

1) I Politici

2) I Giornalisti

3) Gli Intellettuali.

Dunque, secondo queste tre nobili categorie “tuttologiche”, portatrici della Pantautologia, il marxismo sarebbe “morto”. Qui ci soccorre lo scrittore portoghese José Saramago, che ha scritto: “Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta nel 1989 significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui”.

Non si poteva dire meglio. Il platonismo è tuttora in buona salute, ha già alle spalle quasi duemila e cinquecento anni, eppure quante dichiarazioni di morte ha già avuto! È dunque segno di saggezza ipotizzare che la nostra breve vita sarà comunque più breve di alcuni “ismi” che possiedono tuttora, in un certo modo, una “eccedenza” non realizzata.

Saramago ha ragione, ma nello stesso tempo sarebbe sciocco non interrogarci sul perché in questa concreta congiuntura storica la dichiarazione della morte del marxismo assume l’apparenza di una ovvietà indiscutibile. In proposito, ricordo che nel corso del suo processo, alla fine del quale fu condannato a bere la cicuta mortale, Socrate parlò della funesta e pericolosa congiunzione di una “vecchia accusa” (non credere agli dei di Atene) e di una “nuova accusa” (corrompere politicamente i giovani). Ebbene, il frettoloso seppellimento del marxismo oggi, che il buon CEPC considera ovvio e scontato, deriva anch’esso dalla congiunzione di due distinte correnti, che definirò rispettivamente la Vecchia Corrente dei Seppellitori (VCS) e la Nuova Corrente dei Seppellitori (NCS). Esaminiamole separatamente, ma il lettore ricordi che lo faccio solo per comodità e chiarezza espositiva, perché nei fatti queste due correnti, originariamente distinte, si sono fuse in una sola, assolutamente dominante in questa congiuntura storica nel triplice mondo dei Politici, dei Giornalisti e degli Intellettuali.

La Vecchia Corrente dei Seppellitori del marxismo (VCS) è storicamente attiva fin dal ventennio 1875-1895, e cioè da quando il pensiero originale di Marx si è “cristallizzato” in un sistema coerente di tipo filosofico, economico e soprattutto politico. L’accusa originaria, a mio avviso sostanzialmente fondata (B. Croce, E. Bernstein, M. Weber, eccetera), era quella di unire un economicismo riduzionistico ad un utopismo pseudo-religioso. Come ha notato L. Kolakowski nella sua notevole storia del marxismo in tre volumi, i dibattiti di questo primo periodo (1889-1914) erano ancora molto razionali, sia all’interno delle correnti marxiste sia al loro esterno, e cioè fra queste correnti ed i loro avversari. Dopo la rivoluzione del 1917 in Russia, però, il “comunismo” diventò realmente un “fantasma che si aggirava in Europa”, ed è del tutto normale che si sia creato un vero e proprio “mandato sociale” agli intellettuali per organizzare una lotta complessiva contro K. Marx, e ne discuterò in questo saggio nei dettagli. Per ora basti ricordare che questa lotta ebbe grosso modo tre centri di mandato sociale, la socialdemocrazia ostile al bolscevismo comunista, il pensiero liberale ostile alle forme di dittatura, dispotismo e “totalitarismo”, ed infine i nuovi movimenti fascisti europei che rivendicavano invece a se stessi il totalitarismo politico e se ne facevano anzi un vanto, ma consideravano il comunismo il loro nemico principale. Dopo il 1945 le cose cambiarono, almeno in superficie, perché l’Europa perse integralmente la sua indipendenza geopolitica (ed il fatto che la perdesse per le sue proprie colpe non muta di un grammo il fatto che l’abbia comunque persa), e lo scontro fra marxismo ed anti-marxismo diventò una protesi ideologica secondaria di un ben più grande scontro economico e militare. In questa VCS si fusero voci come quelle di F. von Hayek (il comunismo come nemico assoluto del mercato, inteso come ordine naturale del mondo), di K. Popper (il comunismo come ricaduta politica dei pensieri totalitari di Platone, G. W. F. Hegel e K. Marx, i grandi nemici della “società aperta”), eccetera.

La Nuova Corrente dei Seppellitori (NCS) è invece nell’essenziale il prodotto della riconversione ideologica generalizzata della generazione “contestatrice” del Sessantotto europeo. Questa generazione (o almeno una parte rilevante di essa, perché di essa faceva in fondo anche parte Silvio Berlusconi) aveva maturato negli anni sessanta una sorta di mentalità libertaria anti-borghese, che di per sé non avrebbe avuto nessuna “ricaduta” politica comunista e di estrema sinistra, se non si fosse in un certo senso “incontrata” con una autonoma spinta al riconoscimento sociale ed all’accesso ai consumi di una nuova classe operaia che non era più disposta ad accettare uno stato di subalternità e di emarginazione sociale. Il congiungimento di questa spinta libertaria borghese (e cioè socialmente e culturalmente endogena alla borghesia europea di cui costituiva una manifestazione culturale di crisi del tutto interna) e di questa spinta socialdemocratica al riconoscimento ed all’accesso al consumo di origine operaia, salariata e proletaria produsse quello strano fenomeno psico-sociale di Rivoluzione Virtuale, tanto più rumorosa quanto più inesistente, che fu appunto il Sessantotto. Questa alleanza fragile e socialmente contro natura cominciò a logorarsi a metà degli anni settanta, ed a metà degli anni ottanta era ormai integralmente consumata in tutta Europa (al di là di nicchie estremamente minoritarie sul piano sociale di apparati politici professionali di estrema sinistra). I ceti salariati, operai e proletari rifluirono nella loro collocazione subalterna, e furono comunque indeboliti anche dalle nuove modalità “globalizzate” del lavoro flessibile e precario. I ceti piccolo e medio-borghesi (ma anche in parte alto-borghesi) dovettero elaborare il lutto del loro precedente equivoco “rivoluzionario”, e lo elaborarono in un passaggio simbolico da E. Zapata a J. L. R. Zapatero, e cioè da un’impossibile e del tutto fantasmatica rivoluzione popolare terzomondista ed ultra-comunista (che trovò nell’icona santificata e nello stesso tempo reso innocua di Ernesto Che Guevara il suo testimonial) ad una del tutto possibile ed anzi favorita dal grande capitale finanziario e dai suoi apparati di servizio giornalistici ed intellettuali “rivoluzione” del costume di tipo post-borghese ed ultra-capitalistico. Fu questo il terreno di cultura della NCS, che passò da una fase ancora rozza ed ideologica di esorcizzazione del comunismo (i nouveaux philosophes francesi) ed una vera e propria metabolizzazione profonda e performativa (l’ideologia postmoderna). Ma su questo mi soffermerò dettagliatamente soprattutto nel secondo e nel terzo capitolo.

In questa premessa mi basta per ora sottolineare che si è trattato di una gigantesca congiuntura storica, dove il crollo largamente endogeno (e cioè interno) del comunismo storico novecentesco si è incontrato con una altrettanto endogena riconversione della generazione socio-culturale del Sessantotto, oggi dominante negli apparati politici, giornalistici ed intellettuali. Ma sono sicuro che questo è già largamente noto al lettore, e non è dunque necessario insistervi oltre. Può invece essere interessante notare che questa congiuntura storica, che ripeto è largamente “congiunturale”, non deve essere usata come argomento per porre una pietra tombale definitiva sul rapporto fra marxismo e cultura europea.

Passando dal piano europeo al più modesto piano “italiano”, voglio far brevemente notare che la questione culturale del marxismo in Italia deve fare i conti preventivamente con quattro modalità che devono almeno essere indicate e segnalate per essere poi possibilmente evitate: il marxismo degli ignoranti, il marxismo dei politici e degli apparati ideologici al loro stretto servizio (in cui comprendo anche e soprattutto gli apparati politici universitari), il marxismo dei sindacalisti e delle lotte operaie di fabbrica, ed infine il marxismo degli psicologi e degli assistenti sociali. Li esaminerò separatamente, e mi permetterò anche (ma certo il lettore mi perdonerà) anche un po’ di innocuo (anche se triste) umorismo.

Il Marxismo degli Ignoranti (MI) è la prima tipologia che deve purtroppo essere presa in considerazione. Intendiamoci, non voglio affatto sostenere che per discutere di filosofia marxista ci vuole una laurea alla Sorbona e per discutere di economia marxista ci vuole un master a Cambridge. Al contrario, penso che le grandi concezioni del mondo filosofiche, politiche e religiose siano come le partite di calcio ed i pettegolezzi sui potenti, e tutti possono liberamente dire che cosa gli passa per la testa. Nel caso del marxismo, però, a causa della (largamente illusoria ed equivoca) vicinanza con l’identità politica di “sinistra” e l’identità ideologica socialista e comunista, anche gli analfabeti più recidivi si sentono in diritto di “sparare” le prime cose che gli vengono in testa. So bene che per molti dilettanti Ch. Darwin e S. Freud si riducono a due imbecilli che sostengono rispettivamente che l’uomo discende dalle scimmie e che solo il sesso spiega tutto, e nello stesso tempo mi sembra di poter dire cautamente che, nonostante entrambe le affermazioni siano errate, colgono pur sempre alcuni vaghi elementi del problema. Ma con K. Marx non è così. Chiunque si sente abilitato a dare aria ai denti. Ho conosciuto professori universitari di filosofia e di scienze sociali che ignoravano che il cosiddetto “marxismo”, costruito e sistematizzato nel ventennio 1875-1895, era stato opera di F. Engels e di K. Kautsky, e non di K. Marx. L’idea invece che K. Marx sia stato non solo il pensatore ideologico di riferimento largamente mitico ma anche e soprattutto il teorico politico del sistema di Stalin fra il 1924 ed il 1953 è tuttora un luogo comune potentissimo nel mondo dei giornalisti e degli intellettuali, eppure un semplice studio onesto dei dati storici e filosofici permetterebbe facilmente di capire che non è stato così. Non posso fare a meno di rilevare con rincrescimento che molti teologi cattolici hanno intrattenuto questo equivoco, e questo è imperdonabile proprio in nome del detto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, dal momento che nessun teologo cattolico sopporterebbe senza reagire l’accusa a Gesù di Nazareth ed a Paolo di Tarso di essere gli ispiratori dell’editto di Teodosio, della sacralizzazione ideologica del sistema feudale europeo, delle crociate, dell’Inquisizione e dell’Indice del Libri Proibiti.

Il Marxismo dei Politici (MP) è stato in Italia dopo il 1945 il marxismo degli apparati di partito (PCI, poi PDS, poi DS ed in futuro forse PD, partito democratico), e degli apparati ideologici editoriali ed universitari ad essi collegati. Si è trattato di una “ideologia amministrata” ferreamente sulla base di bronzee compatibilità decise dall’alto, ed il pensiero di K. Marx può essere tutto, all’infuori di un sistema ideologico amministrato da un ceto di politici professionali che si orientano in base a rapporti di forza di tipo parlamentare. Con questo non intendo dire che la linea del PCI di P. Togliatti e di E. Berlinguer fosse “errata”, e ci volesse invece o una linea estremistica di guerra civile oppure una “conversione” fin dal 1956 ad una socialdemocrazia pienamente integrata negli apparati della NATO, con rottura aperta con l’allora ancora esistente movimento comunista internazionale. So bene che questo duplice e complementare chiacchiericcio ha dato luogo ad alluvionali pamphlets, ma questo è avvenuto nella mia più completa ed ostentata indifferenza. Per una forza come il PCI, nell’Italia dopo il 1945, e tenendo conto dei rapporti geopolitici, sociali e militari in Europa, la linea della “guerra di posizione” e della “conquista delle casematte” per formare un “blocco storico” capace di ottenere una “egemonia” nella “società civile”, linea che a partire dagli anni ottanta ha mostrato la sua grottesca debolezza strategica (ma solo con il facile “senno del poi”), era invece del tutto plausibile e realistica se non obbligata, e tutti i richiami estremistici al “momento buono”, alla “resistenza rossa”, eccetera, non hanno mai avuto nessuna plausibilità politica e tantomeno superiorità etica (e pensiamo al posteriore terrorismo, che non merita alcuna giustificazione e neppure alcuna “contestualizzazione”). Non intendo invischiarmi nel terreno minato del Risiko politico-militare ex post. Voglio solo far notare che la discussione su Marx e sul marxismo per sua stessa natura è incondizionatamente libera, ed il pensiero di “compatibilizzarla” con pur legittime scelte politiche di partito (e di interessi corporativi di apparati universitari legati al partito) ha significato di fatto ucciderla. Non a caso, praticamente tutti i più importanti studiosi di Marx e di marxismo nell’Italia della seconda parte del novecento lo sono stati al di fuori e quasi sempre contro gli apparati politici di partito. In proposito scommetto (e scommetterei sul sicuro) che lo stesso Karl Marx redivivus sarebbe stato ucciso in URSS, imprigionato in Cina ed espulso o radiato in Italia. Chi si meraviglia di questa mia pacata e moderatissima ipotesi mostra di essere del tutto all’oscuro dei meccanismi sistemici di riproduzione e di legittimazione ideologica di identità e di appartenenza dei partiti politici di tipo “comunista” del novecento.

Il Marxismo dei Sindacalisti (MS) e delle lotte operaie di fabbrica è certo leggermente più “nobile” di quello precedente, ma non per questo bisogna pensare che abbia un vero e proprio rapporto organico di continuità e di contiguità con le intenzioni originali di Karl Marx. Non nego ovviamente la centralità che anche nel pensiero originale di Marx ha il problema dello sfruttamento capitalistico, e più esattamente della estorsione del plusvalore assoluto e/o relativo. Il cuore della teoria dello sfruttamento capitalistico in Marx sta proprio nell’avere scoperto che, dietro l’apparenza dello scambio “equo” fra forza-lavoro e capitale, ci stava in realtà un processo “iniquo” per cui il valore d’uso della forza-lavoro, essendo maggiore del valore di scambio del suo salario, produceva una “eccedenza” di valore che veniva poi incorporata come profitto d’impresa. E tuttavia il pensiero di Marx non è il pensiero del punto di vista unilaterale della classe operaia di fabbrica vittima dello sfruttamento, ma è un pensiero di origine integralmente idealistico-hegeliana della totalità olisticamente intesa del modo di produzione capitalistico nel suo complesso (come peraltro V. I. Lenin comprese correttamente, partendo peraltro da questa corretta constatazione per dedurne la sua sia pur contestabile teoria e pratica del partito bolscevico russo). Chi (come fu purtroppo il mio caso) ha frequentato ambienti politici “militanti” in Italia nel trentennio 1960-1990, sa bene come il cosiddetto “marxismo” per questi ambienti era di fatto esclusivamente la lotta operaia di fabbrica, mentre il resto della totalità sociale capitalistica era scomposto ulteriormente in femminismo (punto di vista delle donne), ecologismo (punto di vista della natura inquinata), pacifismo (punto di vista dell’etica unilaterale della testimonianza), eccetera. Il marxismo, ridotto ad un forma chiassosa di “sindacalismo duro ed intransigente”, doveva così diventare la foglia di un”quadrifoglio”, perdendo così ogni valenza filosofica e culturale.

Resta per ultimo il Marxismo degli Psicologi e degli Assistenti Sociali (MPAS). Mi rendo perfettamente conto che di tutti è il più ridicolo, ma anche gli antichi greci dopo la tragedia e la commedia mettevano in scena il dramma satiresco. Motto di questo curioso “marxismo” non era il famoso detto di K. Marx “Proletari di Tutto Il Mondo, Unitevi!”, ma il detto assistenziale e “buonista” che suonava più o meno così: “Il singolo non ha colpa di nulla, la colpa di tutto è della società”. Hai ucciso la nonna per portarle via i risparmi dal salvadanaio e comprare una dose di eroina? La colpa è sicuramente della società! A scuola non leggi una sola pagina, rompi le scatole a compagni ed insegnanti e leggi solo giornalini porno? La colpa è sicuramente della società! Eccetera, eccetera. Il conoscitore, anche superficiale, della storia della filosofia occidentale, ci vedrà qui sicuramente un’influenza, sia pure semplificata e degradata, di Rousseau e non certo di Marx. Ma il centro del problema non sta qui. Il fatto è, invece, che per “marxismo”, in Italia, al di fuori di ristrettissime nicchie catacombali di maniaci filologi marxiani conoscitori del tedesco, si è inteso per più di mezzo secolo questa oscena mescolanza di MI, MP, MS e MPAS.

Ci troviamo allora di fatto come nel Gioco dell’Oca, in cui si è stati costretti da un insieme di mosse sfortunate a ritornare alla casella di partenza. In questi primi anni del ventunesimo secolo chiunque voglia discutere di Marx e di marxismo, ed in particolare ne voglia discutere nella prospettiva del suo rapporto con la tradizione culturale dell’identità europea, dovrà tornare alla casella di partenza. Ed è stato questo infatti il principio metodologico fondamentale del mio presente saggio. Il lettore si sforzi di dimenticare sia quello che ha sempre creduto di sapere su Marx sia quello che avrebbe voluto saperne e non ha mai osato chiedere (come nelle migliori tecniche erotiche e sessuali), e si accinga invece ad una lettura del tutto “ingenua” ed originaria. Si divertirà di più, e certamente ne sarà più stimolato intellettualmente.

Per facilitarlo in questa nobile impresa, ho diviso la ricca materia in una Introduzione generale ed in quattro capitoli successivi, i primi due di carattere filosofico e culturale, il terzo di carattere integralmente storico ed il quarto ed ultimo di carattere invece politico e di attualità. Non ha senso qui riassumere il contenuto di questi quattro capitoli, perché appesantirebbe inutilmente l’esposizione. Può invece avere senso concludere questa premessa con l’esplicitazione della logica espositiva che ha presieduto alla stesura di questo saggio.

In primo luogo (ed è il tema dei primi due capitoli del saggio) so bene che non basta certo affermare in modo apodittico che Marx ed il marxismo sono parte integrante e non facilmente eliminabile della tradizione culturale che sta oggi alla base di una possibile (e non ancora realmente stabilita) identità europea. La via dell’affermazione apodittica, non importa se arrogante, nostalgica o lamentosa, è una via sbarrata, che non può che produrre fastidio ed irritazione, in particolare nella presente congiuntura storica dominata da una sorta di globalizzazione postmoderna e post-ideologica. Occorre invece cercare di dimostrare la propria tesi, portare argomenti, suggerire vie inedite, ed è quello che cercherò di fare.

In secondo luogo (ed è il tema del terzo capitolo) so bene che è troppo presto per cominciare a proporre un bilancio storico razionale del comunismo novecentesco 1917-1991 inteso come fatto sociale totale ormai già conchiuso e non certo riproponibile nella forma che aveva assunto. Non sono neppure uno storico, ma questa non è una ragione per non proporre alla discussione un bilancio storico che - come il lettore vedrà agevolmente - non è del tutto privo di originalità e soprattutto non si identifica con nessun altro bilancio storico presente nel consueto mercato librario italiano. O si accetta infatti la facile via dell’esorcizzazione, della demonizzazione e dell’infastidita liquidazione tautologica (il comunismo, fenomeno totalitario, è stato veramente totalitario), oppure si arrischia la via più difficile del bilancio storico razionale. E così ho deciso di fare.

In terzo luogo, infine, (ed è il tema del quarto ed ultimo capitolo), dal momento che in fondo si parla di Europa, non avrebbe senso non avere il coraggio di porre il problema politico dell’indipendenza geopolitica dell’Europa all’interno dell’attuale quadro della globalizzazione. In questo modo, certamente, si piacerà a qualcuno e si spiacerà ad altri. Mi dispiace, ma è impossibile evitarlo. Solo dicendo innocue generalità retoriche si è sicuri di non spiacere a nessuno.

In questo saggio purtroppo mi ripeterò spesso, e ripeterò anche cose che ho già scritto da altre parti. È inevitabile, e forse neppure negativo. In buona compagnia con (F.-M. Arouet) Voltaire e con Ernst Bloch posso tranquillamente dire: “Mi ripeterò finché non verrò capito”.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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