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Cat.n. 429

Mario Vegetti

La medicina in Platone. Introduzione di Vincenzo Damiani.

ISBN 978-88-7588-358-4, 2023, pp. 216, formato 140x210 mm., Euro 20 – Collana “il giogo” [160].

In copertina: Anne-Louis Girodet-Trioson, Hippocrate refusant les présents d’Artaxerxès, 1792, (particolare), olio su tela. Parigi, Musée d’histoire de la médecine. Wikimedia Commons.

indice - presentazione - autore - sintesi

20,00

Platone era un seguace di Ippocrate [ ... ]

e prese da lui le principali dottrine.

Galeno1

Nel riproporre al lettore questi studi sulla medicina in Platone,2 può esser utile segnalare i limiti entro i quali i loro scopi e il loro metodo appaiono tuttora validi e indicare le ulteriori prospettive di ricerca nel cui ambito essi vanno inseriti.

Lo scopo era quello di tracciare un quadro sistematico di tutti i riferimenti di Platone alla medicina del suo tempo, nella pluralità delle loro motivazioni, che erano di volta in volta di carattere ana­logico, metaforico, epistemologico, critico. Nonostante che questo intento sia stato realizzato solo parzialmente, perché l’indagine si arresta al Fedro, escludendo i riferimenti alla medicina nei dialoghi posteriori come il Politico, il Timeo, le Leggi (di essi si dirà brevemente al termine di questa introduzione), l’ampiezza dell’analisi qui condotta non è stata in seguito superata da altre ricerche. Ci sono stati certamente studi di grande importanza sull’insieme dei riferimenti platonici alle technai,3 ma nessuno di essi si è prefisso il compito di reperire i riferimenti medici nella loro integralità.

Quanto al metodo, ci si proponeva di interpretare il discorso platonico sulla medicina evitando di considerare Platone alla stregua di un semplice testimone, o dossografo, del pensiero medico del suo tempo, in particolare riguardo alla «questione ippocratica», secondo la tradizionale tendenza della critica che aveva cercato di derivare dai testi platonici indicazioni filologiche sul «vero» Ippocrate e sulle opere da attribuirgli.

Dall’altra parte però non si intendeva considerare i riferimenti medici alla stregua di semplici analogie occasionali e intercambiabili con quelle relative ad altri settori dei saperi tecnico-scientifici. Ipotesi portante del lavoro era invece che Platone avesse intrattenuto durante tutto lo sviluppo del suo pensiero un dialogo serrato con le tendenze della medicina contemporanea, interpretate, assunte a modello, oppure criticate, a seconda delle esigenze teoriche di volta in volta prevalenti in quello sviluppo.

Così si poteva spiegare, ad esempio, la differenza fra l’atteggiamento platonico verso la medicina in un dialogo dedicato alla «purezza» epistemologica come la Repubblica, e in un altro, come il Fedro, al cui centro stava la questione dell’efficacia retorica e politica.

Questo presupposto metodico non proibiva certo di attendersi da Platone informazioni storiche sulla medicina del suo tempo: ma a condizione di interpretarle come provenienti da un interlocutore critico, e attraverso il filtro della «trasposizione» teorica comunque operata dal filosofo.

Va detto che questa cautela di metodo – che pare tuttora sostanzialmente condivisibile – era stata talvolta in parte accantonata nel corso di questi studi, allorché riemergeva la tentazione di utilizzare Platone in modo troppo immediato per ricostruire l’ambito dei testi medici riferibili all’ippocratismo «autentico», oppure alle correnti rivali.

Ciò si doveva soprattutto alla pressione di una lunga tradizione esegetica che andava come si è detto precisamente in questa direzione, e anche in parte alle attese suscitate da una ricerca che in Italia almeno risultava pionieristica, molto rari essendo allora gli studi sistematici sui rapporti tra filosofia e medicina nella cultura antica.

Entro questi limiti, si diceva, scopi e metodi degli studi qui raccolti conservano comunque una loro attualità. Quanto ai risultati conseguiti, essi andranno almeno in parte riconsiderati alla luce di una serie di prospettive maturate nella storia delle ricerche recenti, che verranno sommariamente discusse in questa introduzione secondo la seguente rubrica: il rapporto fra Platone e la medicina; la questione delle scuole mediche; la questione ippocratica; la medicina in Platone dopo il Fedro.

Platone vedeva nella medicina, come in molte altre grandi technai, un modello di sapere compiuto perché delimitato dall’ambito specifico del suo oggetto (la salute e la malattia dei corpi), dotato di regole e procedure razionali, argomentabili e perciò trasmissibili, infine capace di provata efficacia rispetto al suo campo di conoscenza e operatività. Ma nella medicina – e in particolare in quella sua tendenza che sulla base esplicita del Fedro possiamo definire «ippocratica» – Platone vedeva qualche cosa di più specifico, non rapportabile all’insieme dei saperi «tecnici». C’era da un lato un metodo capace di procedere per movimenti sintetici e analitici, di risalire cioè (come già attestava il Carmide) dalla parte all’insieme – dall’organo malato e dalla singola malattia al corpo e al malato –, per poi tornare, alla luce di questa consapevolezza di livello superiore, dalla diagnosi alla cura delle parti e delle malattie.

Questo metodo analitico-sintetico poteva venire trasposto da Platone a modello dello stesso procedimento dialettico, nel momento in cui esso veniva dotandosi degli strumenti metodici della diairesi (nel Fedro) e poi della dicotomia (nel Sofista). Da questo punto di vista, la medicina poteva assumere una dignità epistemologica non inferiore allo stesso modello delle matematiche, per quanto restasse legata a un ambito, come quello corporeo e percettivo, ontologicamente inferiore alle idealità su cui appunto vertevano le matematiche.

Questo specifico privilegio della medicina rispetto alle altre tecniche veniva poi confermato su di un altro versante, altrettanto importante nel pensiero platonico. Il medico appariva esercitare sul suo paziente un potere motivato non dall’interesse ma dal sapere, dalla dedizione terapeutica, dalla persuasione finalizzata al servizio della salute: egli costituiva dunque il modello di riferimento del potere di tipo nuovo e storicamente inaudito che il buon governante platonico – il «filosofo-re» – vorrebbe esercitare sulla polis. Un potere a sua volta terapeutico dei mali dell’anima e della città, legittimato dal sapere relativo al bene universale, cioè l’interesse e la salvezza di tutti, e accompagnato non da violenza e sopraffazione, bensì appunto da una ragionevole persuasione del corpo dei cittadini (insieme sudditi e pazienti di questo governo terapeutico).

Questo stesso duplice rilievo esemplare che la medicina assumeva nel pensiero di Platone – metodico da un lato, etico-politico dall’altro – deve indurre a una cautela ancora maggiore gli sforzi rivolti a identificare i suoi riferimenti storici nella medicina con­temporanea. La forza del pensiero platonico fa sì che esso colga nelle esperienze culturali che viene interrogando potenzialità che vi erano soltanto implicite, mettendone in luce, per via di trasposizione teorica, aspetti non direttamente riscontrabili, e occultandone al tempo stesso altri più espliciti e meglio documentabili, nonché storicamente altrettanto interessanti. Sarebbe vano, ad esempio, cercare nel pensiero politico della sofistica posizioni rigorose ed estreme come quelle che Platone attribuisce al personaggio di Trasimaco nel libro I della Repubblica; e, più specificamente, sarebbe altrettanto vano cercare negli sviluppi delle matematiche fra i secoli V e IV una consapevolezza epistemologica paragonabile a quella che Platone attribuisce loro.

Si tratta, nell’un caso e nell’altro, di un’operazione interpretativa, nella quale Platone porta al limite e rende sistematici elementi che potevano risultare impliciti in quelle posizioni etico-politiche ed epistemologiche, senza tuttavia assumervi un profilo così netto e dominante quale è quello che ci viene presentato nei dialoghi.

Per tornare al caso che ci interessa, ogni tentativo di riportare immediatamente al quadro della medicina del suo tempo i lineamenti teorici che Platone vi vedeva potenzialmente inscritti, rischia di produrre un sovraccarico metodologico nell’immagine storiografica che ne risulterebbe configurata. Per esempio, il presupposto di una unità dell’organismo al di là delle singole parti e delle singole malattie è certamente implicito nella terapeutica dietetica della medicina antica, che cerca di porre sotto controllo i fenomeni morbosi attraverso la regolamentazione dei modi di vita e dell’alimentazione, nonché nella sua diagnostica, che ha di mira (come testimoniano le Epidemie) l’intera personalità del malato. Non c’è però alcuna attestazione teoricamente esplicita di questa consapevolezza, fondata per esempio su di una concezione anatomo-fisiologica unitaria: una sua attribuzione diretta alla medicina «ippocratica» fondata retroattivamente sull’interpretazione platonica risulterebbe perciò impropria.

Le indicazioni platoniche rischiano dunque di indurre a una supervalutazione metodologica della medicina dei suoi tempi, e lo stesso pericolo può derivare da una applicazione troppo letterale del rapporto fra medico e paziente che Platone assume a modello del potere filosofico basato sul sapere e sul servizio (benché riscontri più ravvicinati di questo rapporto possano venir letti in passi di Antica medicina e delle Epidemie).

D’altro canto, la testimonianza platonica può indurre a non dedicare sufficiente attenzione a una serie di rilevanti problemi storico-metodici relativi alla costituzione del sapere professionale della medicina greca, rispetto ai quali Platone è meno interessato anche se non manca di offrirne qualche indicazione marginale e per così dire «obliqua».

Fra questi problemi va annoverato in primo luogo l’effetto che il precoce passaggio alla scrittura operato dalla techne medica intorno alla metà del secolo V ebbe sulla formazione della comunità professionale dei medici e sull’assetto del loro sapere. La lenta formazione di un linguaggio specialistico, la comparsa di opere polemiche e propagandistiche da un lato, di manuali pratici destinati ai medici itineranti dall’altro, costituirono fenomeni di grande spessore culturale destinati a lasciare una traccia duratura nello sviluppo della medicina antica. 4 Ad essi Platone accenna a più riprese, per lo più polemizzando contro la specializzazione dei linguaggi medici, come nel libro III della Repubblica, e contro l’irrigidimento della pratica medica indotto dalla manualistica, come nel Fedro e nel Politico.

La crescente consapevolezza metodica della medicina, che destava il motivato interesse di Platone, non può poi far dimenticare altri aspetti meno «moderni» di questa techne. C’erano da un lato i suoi legami, in parte polemici ma in parte anche di dipendenza, con le pratiche di guarigione magica da cui la techne razionale ve­niva prendendo le distanze ripetendone però talvolta le modalità. Così l’insistenza «ippocratica» sull’importanza della prognosi aveva certamente un significato metodico perfettamente razionale, ma costituiva al tempo stesso un momento di competizione professionale con l’indovino, il mantis guaritore, di cui riprendeva lo sforzo di interpretazione dei «segni» positivi o funesti (anche su questo legame perdurante fra medicina, mantica e guarigione magica Platone offre qualche accenno, per esempio nel Carmide e nel Lachete).

E c’era, soprattutto, la perdurante arretratezza del sapere anatomo-fisiologico, rispetto alla quale il raffinamento metodico si poneva in un certo senso come rimedio compensativo. La fisiologia umorale continuava a concepire il corpo come una «scatola nera», di cui era possibile controllare gli elementi in entrata (aria, cibi, bevande) e quelli in uscita (i fluidi organici); la struttura e le funzioni degli organi interni erano sostanzialmente ignorate, o pensate a partire da elementari analogie tecniche. L’eziologia era largamente metaforica, attingendo al linguaggio politico-militare dei rapporti di forza tra corpo, ambiente esterno e alimentazione, oppure a quello della stasis, la «rivolta» patogena dei fluidi interni all’organismo.5

In realtà, il primo progetto di una comprensione unificata del corpo organico come struttura anatomo-fisiologica fu formulato, come vedremo, non dai medici ma dallo stesso Platone nel Timeo, nel quadro di un tentativo di integrare i processi psichici con quelli somatici.

Da questi accenni sommari può forse risultare chiaro come lo sviluppo della medicina fra i secoli V e IV, tanto dal punto di vista culturale quanto da quello epistemologico, risulti un fenomeno estremamente complesso, per così dire chiaroscurale. Il privilegio della dimensione metodica e della trasposizione etico-politica, che risulta dall’interpretazione platonica, coglie un aspetto certamente importante di questo fenomeno, ma non può indurre a trascurare altri momenti e altri testi storicamente non meno significativi.

Platone era al corrente dell’esistenza nella medicina del suo tempo di tendenze distinte e rivali. Nella Repubblica egli contrappone una medicina tradizionale, basata sull’intervento rapido e circoscritto, di tipo chirurgico o farmacologico, agli eccessi della «moderna» medicina dietetica, con le sue interminabili terapie centrate sul controllo integrale del regime di vita, il cui capofila è indicato in Erodico di Selimbria. In posizione intermedia stanno i «buoni medici» di cui si parla nel Carmide, probabilmente da identificarsi, secondo la testimonianza del Fedro, con la tendenza che faceva capo a Ippocrate di Cos. Il Timeo ricorre poi largamente alla medicina italica e siciliana, e in particolare forse a Filistione di Locri, che tuttavia non viene nominato.

Da queste indicazioni è tuttavia ben difficile trarre precise indicazioni circa le cosiddette scuole di Cos e di Cnido, che un tempo, sulla base di una testimonianza di Galeno, venivano considerate canoniche e sulla cui effettiva esistenza la critica recente ha invece sollevato molti dubbi.6

Solo pochi dati possono venir considerati certi:

1) esisteva – come attestano testimonianze epigrafiche da non molto messe in luce – una «comunità» (koinon) di medici «Asclepia­di» di Cos e Cnido, che godeva di particolari privilegi nell’accesso al santuario di Delfi;

2) non sono per contro esistite, almeno fino al secolo III a.C., scuole di medicina, se a questo termine si dà il valore di centri di insegnamento medico dotati di un proprio corpus dottrinale stabile e uniforme; differenze di dottrina e di metodo, spesso enunciate anche in forma polemica, attraversano si può dire quasi tutti gli scritti raccolti nella «collezione ippocratica»;

3) è certo, come attesta il Regime nelle malattie acute, che esisteva un manuale intitolato Sentenze cnidie, redatto da più autori in epoche successive, al quale senza dubbio si ispirava una tendenza medica contrapposta ad altre;

4) è altrettanto certo, come testimonia Platone nel Protagora, che Ippocrate di Cos era un famoso insegnante di medicina, attivo tra l’altro ad Atene, e senza dubbio a lui faceva capo un gruppo di allievi e seguaci.

Questi elementi, presi nel loro insieme, possono condurre ragionevolmente a due conclusioni diverse ma non opposte. Da un lato, è da escludere l’esistenza di due scuole, quella di Cnido e quella di Cos, ognuna delle quali vada considerata omogenea e coerentemente opposta all’altra, né è possibile indicare con certezza quali scritti vadano assegnati all’una e all’altra. D’altro lato, esistono senza dubbio stili di pensiero medico, profili di metodo e atteggiamenti complessivi, ben differenziati fra loro e che accomu­nano gruppi di scritti della collezione. Se è difficile individuare con precisione i confini e i limiti di questi gruppi, e l’esatto riferimento dell’una o dell’altra opera alla tendenza coa oppure cnidia, essi restano cionondimeno riconoscibili nell’insieme, come si è indicato a più riprese in questi studi. Nuove ricerche, miranti a definire in modo più ravvicinato le affinità e le differenze linguistiche, concettuali e dottrinali fra i vari trattati, e specifici lavori di commento, consentiranno di tracciare una mappa più precisa della «collezione ippocratica», al di fuori della polemica ormai molto datata circa l’esistenza o meno delle scuole di Cnido e di Cos.

Il problema delle scuole introduce direttamente alla celebre, e mai del tutto conclusa, «questione ippocratica»: quali sono le opere della collezione direttamente riferibili a quell’Ippocrate, maestro di Cos, che Platone cita con approvazione e rispetto? La descrizione che il Fedro offre del suo metodo è riconoscibile in uno o più trattati del Corpus? La cautela è necessaria perché, come si è già avvertito, Platone non offre mai citazioni dirette e letterali bensì interpretazioni e trasposizioni teoriche delle posizioni di pensiero cui si riferisce; d’altronde anch’egli avrà dovuto almeno rispettare il vincolo della verosimiglianza, cioè avrà dovuto offrire una descrizione in cui gli interlocutori e i lettori del dialogo potessero in qualche modo riconoscere una figura celebre e a loro ben nota, quale, nel nostro caso, quella di Ippocrate.

Di fronte a questo ordine di problemi, la critica ha continuato anche recentemente a dividersi fra una posizione del tutto scettica, secondo la quale in nessuna opera della collezione è possibile identificare i tratti metodici attribuiti a Ippocrate nel Fedro, e il grande medico resta dunque un «nome senza opere»;7  e una posizione più ottimistica, secondo la quale è invece possibile riconoscere in qualcuno degli scritti medici, sia pure non letteralmente, i lineamenti di pensiero descritti da Platone. Gli studiosi facenti capo a questa seconda posizione continuano però a dissentire anche radicalmente nell’identificazione di questi scritti.8 Particolarmente delicata è la questione relativa a un importantissimo trattato come Antica medicina, nel quale gli studi qui raccolti individuavano il nucleo teorico del gruppo «ippocratico».

Continuo a ritenere che ci siano molti buoni argomenti per accostare Antica medicina al passo platonico del Fedro, e tramite esso al nome di Ippocrate (cfr. pp. 149 ss.).9 Va detto tuttavia che quest’opera presenta tratti tanto singolari da farne un unicum nell’ambito del pensiero medico fra i secoli V e IV: il rigoroso empirismo, la consapevolezza della storicità del sapere medico, la dura polemica contro la philosophia (tra l’altro questo termine è attestato per la prima volta proprio in Antica medicina, se lo scritto può essere datato al secolo V), e altri aspetti concettuali rilevanti (come ad esempio una precisa definizione del concetto di causa), non hanno paralleli neppure in altre opere che si possono ragio­nevolmente ascrivere all’ambito ippocratico. Su Antica medicina sono dunque necessari nuovi e più analitici studi.

Per quanto riguarda nell’insieme la questione ippocratica, credo che l’atteggiamento più prudente continui ad essere quello di conferire al nome di Ippocrate il ruolo di «indice di un evento culturale, di un campo di pensiero»,10 prodottisi nell’ambito del sapere medico verso la fine del secolo V, piuttosto che quello dell’autore di un gruppo definito di opere. Resta tuttavia il fatto che l’ascoltatore/lettore del Fedro avrà senza dubbio colto, nell’allusione di Platone, il riferimento a esperienze culturali, scritte o parlate, che gli erano note: non è dunque illegittimo, sulla base di un’analisi sistematica della presenza della medicina in Platone, tentare di individuare questo ambito di riferimento, come questi studi, e altri venuti in seguito, hanno fatto.

Continua anche ad apparirmi sensata l’ipotesi che l’esperienza della medicina sia venuta mutando il suo impatto culturale durante l’arco quasi cinquantennale della produzione platonica, in parte anche per effetto di questa. Se nel passaggio fra i secoli V e IV essa aveva ancora una posizione di leadership metodica, in quanto sapere razionalmente organizzato ed efficace, più tardi sarebbe via via decaduta al rango di sapere specialistico di tipo «tecnico» e quindi epistemologicamente inferiore, interessante soprattutto come serbatoio di un repertorio metaforico riferibile al buon governo capace di guarire i mali dell’anima e della città. Con il Timeo e con Aristotele, la filosofia della natura così duramente combattuta in Antica medicina avrebbe ripreso la sua supremazia, subordinando decisamente a sé il sapere medico, come lo stesso Aristotele sanciva in un importante passo del De sensu (capitolo 1). Parallelamente a questo decadimento epistemologico, la nuova situazione sociale, seguita alla crisi della città democratica del secolo V, portava con sé anche una crisi del prestigio degli uomini delle technai fra i quali i medici avevano primeggiato. Su questo processo, come questi studi avevano suggerito, l’atteggiamento platonico verso la medicina può offrire preziosi ragguagli.

Ed è anche in questo quadro che vanno interpretati i testi platonici sulla medicina posteriori al Fedro, di alcuni dei quali si dirà ora brevemente, in attesa di ulteriori studi sistematici, da cui ci si potrebbero attendere chiarimenti significativi circa l’eventuale ruolo svolto dalla riflessione platonica sulla medicina nella costruzione della gnoseologia del Teeteto, della teoria del piacere nel Filebo, e della metodologia dialettica nel Sofista e nel Politico.

Il riferimento alla medicina compare nel Politico11 nel quadro della critica platonica alla rigidità delle leggi scritte, che integra ed espande quella formulata nel Fedro alla scrittura in generale. Una legislazione scritta universale e immutabile, sostiene Platone, è certo un efficace rimedio rispetto all’arbitrio e agli abusi che sono propri di un potere degenerato e contraffatto, qual è quello tirannico. Ma esse rappresentano soltanto una «seconda navigazione», un male minore. Se il potere fosse detenuto dal vero politico, il «filosofo-re», la legislazione scritta sarebbe soltanto di impedimento alla sua capacità di modificare progressivamente la costituzione in rapporto all’evolversi della situazione sociale e in vista del regime migliore. Si tratta di una posizione ben comprensibile in Platone, impegnato, dalla Repubblica alle Leggi in progetti di riforma costituzionale a guida e fondamento filosofici profondamente innovativi rispetto alla legislazione scritta delle poleis (ed era altrettanto naturale, per contro, che Aristotele negasse nel libro II della Politica l’opportunità di frequenti e audaci innovazioni legislative).

In questo quadro, Platone ricorre a una efficace metafora medica. Abbandonando i suoi pazienti per un lungo periodo, un medico giustamente lascerebbe loro prescrizioni scritte, perché non si allontanino dalla terapia programmata. Ma, ritornando prima del tempo previsto, il medico non dovrebbe forse avere la libertà di modificare le sue stesse prescrizioni per adeguare al meglio la cura in rapporto al concreto evolversi della situazione? Fin qui, Platone non si allontana dal modulo che ci è noto della medicina come immagine di un potere di servizio, finalizzato al bene dei sudditi/pazienti e basato sul sapere. Ma almeno due punti sono specificamente interessanti. Il primo consiste nell’esempio offerto del variare delle circostanze alle quali va adeguata la terapia: si tratta «dei venti o di qualche altro fattore celeste inatteso»12  (e, più avanti, si veda il riferimento a «venti, caldo e freddo» e alla meteorologia,13 dove quest’ultimo termine riprende il passo «ippocratico» del Fedro). Il rilievo attribuito ai venti e alla meteorologia come fattori decisivi nelle vicende della salute e della malattia sembra rinviare ad opere come Arie acque luoghi e Male sacro, la cui appartenenza al nucleo «ippocratico» del Corpus è stata sostenuta in questi studi e da molti altri interpreti.

Ma più significativo, e di rilievo più generale, è il secondo punto. Platone afferma che se i saperi delle technai (al pari della legislazione) dovessero venire bloccati e irrigiditi da un corpus di regole scritte e immutabili, ciò non soltanto risulterebbe ridicolo,14 ma soprattutto darebbe luogo alla paralisi e all’estinzione di quegli stessi saperi, che richiedono invece revisione e innovazione.15

La pressione dell’esigenza dell’innovazione politica porta qui Platone a una concezione dinamica dello sviluppo dei saperi in generale, e della medicina in particolare. Ne risulta rinforzata la critica all’apprendimento e alla codificazione manualistica della medicina, che il Fedro aveva già accennato, e ad essa si aggiunge una dura polemica contro le tentazioni dell’ortodossia di scuola legata alla fedeltà verso i testi scritti. È difficile dire se Platone fosse soltanto spinto dall’esigenza critica verso la legislazione codificata, come appare probabile, o se avesse anche di mira qualche specifica dimensione della riflessione medica. In questo secondo caso, si potrebbe certo pensare alla polemica del Regime nelle malattie acute contro le Sentenze cnidie, con la loro pretesa di codificare esaurientemente i nomi di tutte le malattie, e soprattutto alla concezione sostenuta in Antica medicina di una techne storicizzata, mobile e aperta agli sviluppi futuri.

Il celebre e suggestivo passo delle Leggi16 riattiva la metafora medica in relazione alla forma del potere buono. In una città ben governata, si chiede Platone, le leggi dovranno limitarsi a imporre coercitivamente le loro prescrizioni, alla maniera dei tiranni, o non sarà più opportuno corredarle di preamboli e spiegazioni che educhino i cittadini e li persuadano della propria utilità? Platone naturalmente propende per la seconda alternativa e la illustra appunto sulla base della condotta dei medici. Ci sono, egli scrive, aiutanti dei medici, liberi o per lo più schiavi, che hanno appreso l’arte non scientificamente, ma in base agli ordini del loro padrone e alla propria esperienza diretta. Costoro curano soprattutto gli schiavi, e nel modo seguente:

[…] nessuna ragione di ciascuna delle malattie di ciascuno di quegli schiavi nessuno di tali medici dà o ascolta, e prescritto ciò che par meglio alla loro esperienza ... fanno come un tiranno superbo e subito si scostano e si recano presso un altro schiavo malato».17

A questa pratica si contrappone quella del vero medico, il libero che cura i liberi. Egli «studia le malattie, le tiene fin dal principio sotto osservazione, come vuole la natura, dando informazioni allo stesso malato e agli amici, e insieme egli impara qualcosa dagli ammalati e, per quanto è possibile, ammaestra l’ammalato stesso. Non prescrive nulla prima di averne persuaso per qualche via il paziente, e allora si prova a condurlo alla perfetta guarigione, sempre preparando docile all’opera sua con il convincimento il paziente».18

Si è a lungo discusso per accertare se la pratica descritta in questo ammirevole passo platonico corrispondesse a una effettiva realtà sociale della medicina del secolo IV, e per individuare il profilo storico dei «buoni medici» qui evocati.19  Per la prima questione – anche se una rigida distinzione fra medicina degli schiavi e medicina dei liberi non fu mai istituzionalizzata – non appare dubbio che Platone descriva uno stato di fatto noto e riconoscibile per i suoi lettori, e che quindi la pagina platonica possa venire accettata come una testimonianza, del resto molto plausibile, di una doppia pratica terapeutica storicamente diffusa.

Quanto al secondo punto, è ben noto come la comunicazione assidua e la collaborazione con il malato siano elementi centrali della pratica terapeutica tanto secondo Antica medicina quanto secondo Epidemie, I, opere riportabili a vario titolo al profilo «ippocratico» della techne medica.

Il problema centrale è tuttavia un altro. Nel libro III della Repubblica, Platone aveva raccomandato una medicina tradizionale, mirante a ripristinare nel più breve tempo possibile le capacità del malato di partecipare alla vita lavorativa e politica: qualcosa di molto simile, dunque, alla «medicina degli schiavi» descritta nelle Leggi. Per contro, egli aveva condannato le moderne tendenze della medicina dietetica, descritte in modo sprezzante come «pedagogia delle malattie», perché esse prolungavano la terapia all’infinito, richiamando su di essa quelle energie che il malato avrebbe dovuto dedicare alla comunità. Ora, sembra che i buoni medici delle Leggi – che seguono l’intero decorso del male, ed educano il paziente con le loro spiegazioni sulla patologia e sulla terapia, fino alla «completa» guarigione – siano molto vicini proprio ai medici dietetici attaccati nella Repubblica, ippocratici o seguaci di Erodico che fossero. Questo capovolgimento della prospettiva platonica si spiega in parte con il valore metaforico dell’immagine della medicina nelle Leggi e più in generale con il diverso rapporto fra pubblico e privato che si teorizza in quest’opera (dove il secondo è meno decisamente integrato nel primo rispetto alla Repubblica).

Può anche darsi, d’altra parte, che verso la metà del secolo IV la medicina dietetica si fosse definitivamente affermata come la sola forma terapeutica dotata di prestigio presso la colta aristocrazia greca: lo dimostra, del resto, il successo di Diocle di Caristo, noto come «il secondo Ippocrate». Tutto ciò fece sì, in ogni caso, che la memorabile pagina delle Leggi venisse a lungo considerata come un monito esemplare circa la giusta configurazione della prassi medica, nonostante i problemi sociali che essa poneva e di cui la Repubblica si era mostrata ben consapevole.

Un’indagine analitica sui materiali medici impiegati da Platone nella costruzione della filosofia della natura esposta nel Timeo richiederebbe uno studio di vaste proporzioni.20

Nei limiti di questa introduzione ci si dovrà quindi limitare a pochi e sommari accenni. L’immagine dell’organismo costruita nel Timeo, sulla stregua di quella dell’anima elaborata nella Repubblica e qui riattivata con qualche variante, è policentrica, e proprio per questo impiega materiali provenienti da diverse tradizioni medico-biologiche. La supremazia assegnata al cervello come sede delle funzioni razionali della psiche ha senza dubbio punti di contatto con l’ippocratismo di Male sacro e con la tradizione anassagorea; Platone la deriva però probabilmente dal pitagorismo di Alcmeone e soprattutto di Filolao. La teoria encefalo-mielogena del seme può anch’essa avere origini anassagoree. Viceversa, il primato assegnato al cuore e al sangue nelle maggiori funzioni vitali, come la digestione e la respirazione, rinvia senz’altro al cardio-emocentrismo di Empedocle e della tradizione medica che ne dipende, rappresentata soprattutto da Filistione di Locri. Ma nel montaggio platonico di una pluralità di centri organici, che appunto consente di sintetizzare queste tradizioni rivali, prevale senza dubbio – come del resto in tutto il Timeo – la posizione pitagorica, che già con Filolao aveva proposto un analogo schema policentrico. Nel Timeo si registra dunque la massima distanza di Platone dallo stile di sapere della techne medica, ippocratica e no, proprio nel momento in cui egli ne utilizza la maggior quantità di materiali. L’idea di un sistema continuo di riduzioni, che riconduce i componenti e gli umori organici ai quattro elementi-qualità empedoclei (fuoco/caldo, acqua/umido, terra/secco, aria/freddo), e questi a sua volta a corpi geometrici elementari, rappresenta il massimo sviluppo di quella dottrina physiologica dei «postulati» (hypotheseis) contro la quale si era scagliata, in nome dell’autonomia del sapere medico, la polemica antiempedoclea di Antica medicina. L’appoggio che la filosofia della natura riceveva ora dall’autorità di Platone (sia pure solo nella forma di un «mito verosimile», come egli presenta il Timeo) contribuiva al declassamento della medicina al livello di un sapere tecnico-terapeutico, privo di controllo conoscitivo sui principi ultimi della natura dei corpi sui quali operava. Platone anticipava così nel Timeo quella subordinazione della medicina alla filosofia naturale, che Aristotele avrebbe definitivamente sancito con il suo grandioso corpus fisico-biologico.

Per un altro aspetto, tuttavia, e in modo quasi paradossale, Platone offriva con il Timeo un contributo fondamentale al superamento dei limiti concettuali che erano stati propri della medicina fra i secoli V e IV. Questa non era mai riuscita a formulare (se non in forme davvero embrionali) una concezione dell’organismo come struttura unitaria e integrata di organi e funzioni in rapporto reciproco; non aveva sviluppato, in altri termini, una teoria anatomo-fisiologica del corpo, in particolare sottovalutando la funzione degli organi solidi rispetto a quelle dei fluidi organici.

Questo sviluppo della teoria biologica non era certamente al centro degli interessi di Platone quando egli scriveva il Timeo. Vi era tuttavia indotto, in modo quasi inerziale, dall’intenzione di produrre un’immagine somatica a somiglianza di quelle (integra­te e interagenti) dell’anima e della città che erano state proposte nella Repubblica. La «politicizzazione» e la «psicologizzazione» del corpo, la sua lettura secondo una serie concatenata di metafore politiche e psichiche insieme, ne comportava un’interpretazione in chiave di «organismo», necessaria alla costruzione di quell’apparato psico-somatico che, esso sì, interessava Platone in vista della proposta di una terapia educativa, a base etico-politica, delle affezioni dell’anima e del corpo insieme.

Comunque fosse conseguita questa concezione integrata e funzionante dell’organismo corporeo, essa certamente superava un limite teorico della medicina antica e apriva la via all’anatomo-fisiologica aristotelica, ormai «letteralizzata», cioè pensata in gran parte al di fuori delle metafore politiche e psichiche. Dopo Aristo tele, cioè dagli alessandrini a Galeno, questa sarebbe divenuta la concezione dominante nella medicina, che veniva così realizzando la sua «rottura epistemologica» rispetto alla eredità della grande techne dei secoli V e IV.

Di questa, e in particolare dell’ippocratismo, i medici non avrebbero però mai dimenticati né lo straordinario talento clinico e prognostico, né lo spirito etico-deontologico, e neppure, infine, l’aspirazione antica del medico a fare della sua arte un modello di sapere esemplare tanto sul piano della consapevolezza metodica, quanto su quello dell’efficacia terapeutica e di una «filantropia» espressa in primo luogo nel rapporto con il paziente.21

Sono stato indotto a ripresentare questi studi sia per la cortese insistenza dell’editore, sia soprattutto per l’incoraggiamento e l’interesse che mi sono venuti da amici e colleghi italiani e stranieri. Fra i primi, vorrei ringraziare particolarmente Umberto Galimberti e Mario Galzigna dell’Università di Venezia; fra i secondi, Ian Solbakk (Tromsøe) e Gilles Susong (Domfront-Paris).

Ringrazio anche Enrico Rambaldi, direttore della «Rivista di storia della filosofia», per l’autorizzazione a ripubblicare questi saggi. Un grato ricordo va alla memoria di Mario Dal Pra, che volle accoglierli sulle pagine della rivista che aveva fondato e che allora dirigeva.

1 Galeno, De Usu Partium, 1,8.

2 Gli studi sono comparsi sulla «Rivista critica di storia della filosofia» negli anni 1965 (pp. 1-37), 1967 (pp. 251-270), 1968 (pp. 251-267), 1969 (pp. 3-22). Essi vengono qui riproposti con qualche modifica, suggerita dagli sviluppi delle ricerche, che tuttavia non ne altera il disegno originale, e con alcuni aggiorna­menti bibliografici.

3 Fra i quali si veda soprattutto G. Cambiano, Platone e le tecniche, Torino 1971, Roma-Bari 19912. Un nuovo studio anch’esso parziale sulla medicina in Platone di I. Solbakk è in corso di pubblicazione.

4 Il rapporto fra medicina e scrittura è stato analizzato, secondo punti di vista diversi, da D. Lanza, Lingua e discorso nell’Atene delle professioni, Napoli 1975; I.M. Lonie, Literacy and the Development of Hippocratic Medicine, in Formes de pensée dans la Collection hippocratique, a cura di F. Lasserre, P. Mudry, Atti del IV colloquio internazionale ippocratico (Lausanne 1981), Genève 1983, pp. 145-161; J. Pigeaud, Le style d’Hippocrate ou l’écriture fondatrice de la médecine, in Les savoirs de l’écriture, a cura di M. Detienne, Lille 1988, pp. 305-329.

5 Ho discusso questi problemi in Metafora politica e immagine del corpo, in M. Vegetti, Tra Edipo e Euclide, Milano 1983 [nuova edizione: Petite Plaisance, Pistoia 2018; n. di redazione].

6 L’esistenza delle due «scuole» è stata discussa soprattutto da I.M. Lonie, Cos versus Cnide, in «History of Science», 1978, 31, pp. 42-75; 32, pp. 77-92; A. Thivel, Cnide et Cos?, Paris 1981; V. Di Benedetto, Il medico e la malattia, Torino 1986 (cfr. Cos e Cnido, pp. 70-85). Una posizione più sfumata è stata sostenuta a più riprese da J. Jouanna: cfr. da ultimo Hippocrate, Paris 1992, pp. 86 ss.

7 Una posizione di scetticismo radicale è stata ribadita, sulle orme di L. Edelstein, da G.E.R. Lloyd, La questione ippocratica, in Metodi e problemi della scienza greca, trad. it. Roma-Bari 1993, pp. 333-382. Si tratta comunque di un saggio ricco di importanti indicazioni di metodo.

8 Così W.D. Smith, The Hippocratic Tradition, Ithaca-New York 1979, sulla base di un’interpretazione «cosmologica» del passo del Fedro nonché di altre testimonianze, ha indicato il Regime come l’opera dell’Ippocrate cui si riferisce Platone. Con argomenti diversi pervengono a conclusioni convergenti R. Joly, Platon, Phèdre et Hippocrate: vingt ans après, in Formes de pensée, cit., pp. 407-422 e J. Mansfeld, Plato and the Method of Hippocrates, in «Greek, Roman Byzantine Studies», 1980, pp. 341-362; Id., The Historical Hippocrates and the Origins of Scientific Medicine, in Nature Animated, a cura di M. Ruse, Dordrecht 1983, pp. 49-76: entrambi questi studiosi vedono in Arie acque luoghi il testo di riferimento del Fedro; il gruppo «ippocratico» comprenderebbe inoltre opere assimilabili, come Epidemie, I e III, Male sacro, Prognostico.

9 Cfr. in questo senso anche J. Jouanna, La «collection Hippocratique» et Platon (Phèdre 269c-272a), in «Revue des Études Grecques», 1977, pp. 15-28; si veda anche il suo commento ad Antica medicina, Collection Budé, Paris 1990.

10 Scrivevo queste parole nell’introduzione alla seconda edizione delle Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, Torino 1976. [Cfr., anche, Id., Scritti sulla medicina ippocratica, Petite Plaisance, Pistoia 2018, p. 392; n. di redazione].

11 Platone, Politico, 295 c, ss.: «[…] εἴπωμεν γὰρ δὴ πρός γε ἡμᾶς αὐτοὺς ἰατρὸν μέλλοντα ἢ καί τινα γυμναστικὸν ἀποδημεῖν καὶ ἀπέσεσθαι τῶν θεραπευομένων συχνόν, ὡς οἴοιτο, χρόνον, μὴ μνημονεύσειν οἰηθέντα τὰ προσταχθέντα τοὺς γυμναζομένους ἢ τοὺς κάμνοντας, ὑπομνήματα γράφειν ἂν ἐθέλειν αὐτοῖς, ἢ πῶς;».

12 Ivi, 295 c-d: «[…] ἆρ’ οὐκ ἂν παρ’ ἐκεῖνα τὰ γράμματα τολμήσειεν ἄλλ’ ὑποθέσθαι, συμβαινόντων ἄλλων βελτιόνων τοῖς κάμνουσι διὰ πνεύματα ἤ τι καὶ ἄλλο παρὰ τὴν ἐλπίδα τῶν ἐκ Διὸς ἑτέρως πως τῶν εἰωθότων γενόμενα, καρτερῶν δ’ ἂν ἡγοῖτο δεῖν μὴ ἐκβαίνειν τἀρχαῖά ποτε νομοθετηθέντα μήτε αὐτὸν προστάττοντα ἄλλα μήτε τὸν κάμνοντα ἕτερα τολμῶντα παρὰ τὰ γραφέντα δρᾶν, ὡς ταῦτα ὄντα ἰατρικὰ καὶ ὑγιεινά, τὰ δὲ ἑτέρως γιγνόμενα νοσώδη τε καὶ οὐκ ἔντεχνα».

13 Ivi, 299 b: «[…] καὶ ἰατρικῆς ἀλήθειαν περὶ πνεύματά τε καὶ θερμὰ καὶ ψυχρὰ ζητῶν φαίνηται παρὰ τὰ γράμματα καὶ σοφιζόμενος ὁτιοῦν περὶ τὰ τοιαῦτα, πρῶτον μὲν μήτε ἰατρικὸν αὐτὸν μήτε κυβερνητικὸν ὀνομάζειν ἀλλὰ μετεωρολόγον ...».

14 Ivi, 295 d-e: […] ἢ πᾶν τὸ τοιοῦτον ἔν γε ἐπιστήμῃ συμβαῖνον καὶ ἀληθεῖ τέχνῃ περὶ ἅπαντα παντάπασι γέλως ἂν ὁ μέγιστος γίγνοιτο τῶν τοιούτων νομοθετημάτων;».

15 Ivi, 299 c-e: «[…] οὐδὲν γὰρ δεῖν τῶν νόμων εἶναι σοφώτερον· οὐδένα γὰρ ἀγνοεῖν τό τε ἰατρικὸν καὶ τὸ ὑγιεινὸν οὐδὲ τὸ κυβερνητικὸν καὶ ναυτικόν […]. Δῆλον ὅτι πᾶσαί τε αἱ τέχναι παντελῶς ἂν ἀπόλοιντο ἡμῖν, καὶ οὐδ’ εἰς αὖθις γένοιντ’ ἄν ποτε διὰ τὸν ἀποκωλύοντα τοῦτον ζητεῖν νόμον· ὥστε ὁ βίος, ὢν καὶ νῦν χαλεπός, εἰς τὸν χρόνον ἐκεῖνον ἀβίωτος γίγνοιτ’ ἂν τὸ παράπαν».

16 Platone, Leggi, IV, 720 a, ss.: «[…] καθάπερ ἰατρὸς δέ τις, ὁ μὲν οὕτως, ὁ δ’ ἐκείνως ἡμᾶς εἴωθεν ἑκάστοτε θεραπεύειν ἀναμιμνῃσκώμεθα δὲ τὸν τρόπον ἑκάτερον, ἵνα τοῦ νομοθέτου δεώμεθα, καθάπερ ἰατροῦ δέοιντο ἂν παῖδες τὸν πρᾳότατον αὐτὸν θεραπεύειν τρόπον ἑαυτούς. οἷον δὴ τί λέγομεν; εἰσὶν πού τινες ἰατροί, φαμέν, καί τινες ὑπηρέται τῶν ἰατρῶν, ἰατροὺς δὲ καλοῦμεν δήπου καὶ τούτους […]».

17 Ivi, IV, 720 c: «[…] Ἆρ’ οὖν καὶ συννοεῖς ὅτι, δούλων καὶ ἐλευθέρων ὄντων τῶν καμνόντων ἐν ταῖς πόλεσι, τοὺς μὲν δούλους σχεδόν τι οἱ δοῦλοι τὰ πολλὰ ἰατρεύουσιν περιτρέχοντες καὶ ἐν τοῖς ἰατρείοις περιμένοντες, καὶ οὔτε τινὰ λόγον ἑκάστου πέρι νοσήματος ἑκάστου τῶν οἰκετῶν οὐδεὶς τῶν τοιούτων ἰατρῶν δίδωσιν οὐδ’ ἀποδέχεται, προστάξας δ’ αὐτῷ τὰ δόξαντα ἐξ ἐμπειρίας, ὡς ἀκριβῶς εἰδώς, καθάπερ τύραννος αὐθαδῶς, οἴχεται ἀποπηδήσας πρὸς ἄλλον κάμνοντα οἰκέτην, καὶ ῥᾳστώνην οὕτω τῷ δεσπότῃ παρασκευάζει τῶν καμνόντων τῆς ἐπιμελείας ...».

18 Ivi, IV, 720 d, traduzione di Attilio Zadro in: Platone, Dialoghi, vol. VII, La-terza, Bari 1952.

19 Il problema è stato recentemente ripreso da G. Susong, Qui est le médecin des Lois de Platon?, relazione presentata all’VIII colloquio internazionale ippocratico, Kloster Banz/Staffelstein, 1993.

20 La ricerca è stata parzialmente affrontata in P. Manuli, M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello, Milano 1977, pp. 77 ss. [nuova edizione, Petite Plaisance, Pistoia 2009; n. di redazione].

21 Ho discusso i rapporti della medicina ellenistica e di Galeno con la tradizione ippocratica rispettivamente in Tra il sapere e la pratica: la rivoluzione epistemologica incompiuta della medicina ellenistica, in M.D. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, vol. I, Roma-Bari 1991; L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno, in Aufstieg und Niedegang der römischen Welt, a cura di W. Haase, I. Temporini, 37.2, Berlin-New York 1993.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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