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Cat.n. 073

Giancarlo Paciello

Quale processo di pace? Cinquant’anni di espulsioni e di espropriazioni di terre ai palestinesi

ISBN 88-87396-65-0, 1999, pp. 144, formato 140x210 mm., € 10,00 – Collana “Divergenze” [18].

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10,00

Introduzionetc "Introduzione"

Dopo cinque anni di rinvii e di ritardi, con una colonizzazione che non si è mai realmente arrestata, il processo di pace, che tante attese aveva destato nel mondo occidentale, e… anche fra i palestinesi, è di nuovo bloccato. Gli accordi di Wye Plantation sono inattuati nella sostanza e le imminenti elezioni anticipate in Israele (17 maggio) non fanno bene sperare. Di fatto, rappresentano un valido mezzo, per Netanyahu, per continuare a tenere bloccati i negoziati e per avere mano libera nell’intensificazione della colonizzazione. È evidente che in queste condizioni il processo di pace non possa trovare una soluzione ragionevole, e soprattutto duratura, visto il persistere appunto della colonizzazione che continuerà da una parte a sottrarre terra ai Palestinesi e dall’altra a trasformare, quello che resta del territorio palestinese, in piccole isole senza alcuna autonomia economica, oltre che politica, circondate come sono già ora da colonie e da una rete stradale che le esclude.
Si pensi che del territorio originario del piano di spartizione, e cioè l’intera Palestina del Mandato, ai Palestinesi, alla fine del processo di pace, dovrebbe comunque toccare un’area compresa fra il 7% e il 9%. Dal 1948 ad oggi dunque, lo Stato d’Israele si è impossessato, manu militari, del 44% del territorio del Mandato e conta ora, per quanto riguarda la Cisgiordania e la striscia di Gaza, di restituirne meno del 10%. Nonostante che le Risoluzioni dell’O.N.U. esplicitamente dichiarino che non è permesso, a nessuno, di impadronirsi di territori con la guerra.
L’intento di questo saggio è quello di fornire un quadro della situazione determinatasi in Israele/Palestina dopo gli accordi di Oslo, benedetti da Clinton, sul prato della Casa Bianca, mentre Rabin ed Arafat si stringevano la mano, nell’ormai lontano 13 settembre del 1993.
Sul numero 1-2 della rivista Koiné (gennaio- giugno 1998) abbiamo avviato una riflessione sulla storia dei Palestinesi e dello Stato d’Israele. L’abbiamo continuata nel numero 3-4 (luglio-dicembre 1998), facendo riferimento al dibattito in corso in Israele sui “nuovi storici”, una pattuglia agguerrita di studiosi che mettono in discussione i miti fondatori dello Stato d’Israele (e con essi “la storia” che li ha consacrati). Gli elementi di fondo li abbiamo tratti da uno splendido libro di Dominique Vidal, Le péché originel d’Israël, la cui prefazione ci servirà anche per avviare questo saggio.
Per quanto riguarda l’aspetto metodologico, è bene chiarire subito che questo saggio affronta il problema palestinese da un punto di vista politico generale e non quindi da quello delle organizzazioni politiche che via via ne sono state coinvolte. Sia in campo israeliano sia in campo arabo. Se a qualcuno questo scritto potrà apparire di parte, questo dipenderà soltanto da un’abitudine assai diffusa, della quale per lungo tempo ho fatto fatica anch’io a liberarmi, che spinge a valutare un testo più per il campo di appartenenza che per le tesi che sostiene. Io spero di trovare più lettori critici che tifosi, che sappiano valutare però, con piena onestà intellettuale, i contenuti storici su cui si fondano le tesi sostenute, che in sostanza si riducono ad una sola: il diritto del popolo palestinese a vivere sulla sua terra.
Quale sia questa sua terra è presto detto. Non la Palestina mandataria. Lo Stato d’Israele è una realtà indiscutibile. Ragionevolmente, quella parte della Palestina che le Nazioni Unite assegnarono allo stato arabo con la Risoluzione 181. Sicuramente la Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e la striscia di Gaza, libere da ogni vincolo con lo Stato israeliano. Non un dunam di meno, pena la scomparsa dei palestinesi come popolo. Dovrà poi essere possibile, per i rifugiati che lo volessero, tornare a vivere nei luoghi d’origine. L’autodeterminazione era implicita nella spartizione, il ritorno è stato sempre esplicito, dalla risoluzione 194 alla 242.
Penso in sostanza, ad uno Stato palestinese con ampie possibilità di “integrazione” con uno Stato d’Israele laico e democratico. Qualcosa che somigli vagamente ad uno stato bi-nazionale. Credo, infatti, che attualmente lo stato bi-nazionale non possa che appartenere al regno dei sogni. Chi viceversa, preso dalla disperazione, si augurasse, per la comunità palestinese, di trovare posto in uno Stato d’Israele laico e democratico, commetterebbe un grosso errore, dal momento che, senza un’esplicita definizione di uno spazio palestinese, a meno di un miracolo, si andrebbe verso la dissoluzione del popolo palestinese. In pratica, soltanto un’esplicita separazione dei territori, potrà porre fine al processo di colonizzazione, che altrimenti porterà (ed è già abbastanza avanti nel portare) alla totale “bantustanizzazione”. Ciò non significa che non sia assai importante, per gli Arabi israeliani battersi per i loro diritti di cittadini. E forse, una battaglia di questo genere, potrebbe favorire la nascita in Israele di uno Stato post-sionista, al riparo dall’offensiva dell’estremismo religioso.

«Per il suo cinquantesimo anniversario, il 14 maggio 1998, lo Stato d’Israele ha pubblicato, a cura del suo ministero della Pubblica Istruzione, un Libro del Giubileo, destinato a favorire la commemorazione dell’avvenimento in tutte le scuole del paese. “Curiosamente, ci dice il serissimo Haaretz (27 gennaio 1998), il libro non fa menzione dell’esistenza di un popolo palestinese, né prima della creazione dello Stato d’Israele, né dopo, né del piano di spartizione del 1947 che aveva creato due stati, uno ebraico, uno arabo – in Palestina”. Più avanti, la giornalista Relly Sa’ar aggiunge: “Il capitolo riguardante gli sforzi per la pace evoca i trattati con l’Egitto e la Giordania, ma ignora completamente gli accordi di Oslo e l’attuale processo di pace con i palestinesi”. Non si potrebbe esprimere meglio quanto, particolarmente in Medio Oriente, il presente sia inseparabile dal passato, e fino a che punto la storia delle origini del problema palestinese resti una posta scottante».

Così comincia il libro di Dominique Vidal e si capisce allora perché sarà necessario tornare indietro nel tempo, per capire gli eventi odierni. Indietro di quanto?
È mia personale opinione che si dovrebbe tornare al 1897, al “programma di Basilea” del Primo congresso sionista, un’assai esplicita “carta” della colonizzazione della Palestina, per poi passare al 1917, anno della “Dichiarazione Balfour” e ai trent’anni (1917- 1947) di dominio britannico sulla Palestina, prima con l’occupazione diretta e poi in ottemperanza (!) al Mandato della Società delle Nazioni. Furono infatti proprio quei trent’anni che favorirono la formazione delle strutture del futuro Stato ebraico. Senza dimenticare il momento più importante di questo periodo quando, a fronte della rivolta palestinese contro il rapporto della Commissione reale Peel (nel quale, per la prima volta, si preconizzava la spartizione della Palestina), l’esercito britannico si impegnò a schiacciarla, distruggendo tutte le organizzazioni politiche e militari palestinesi esistenti. A fianco della potenza imperialista si schierarono in quell’occasione, e fecero esperienze importanti, le prime formazioni armate sioniste che gettarono così le basi per la nascita dell’Hagana (l’esercito clandestino ebraico) e anche dell’Irgun e della sua frangia dissidente, il gruppo Stern, due formazioni terroristiche che si distingueranno in seguito per la loro violenza contro la potenza britannica e ancor più contro la popolazione palestinese.
Tutto questo per capire innanzi tutto che la spartizione della Palestina, decisa dall’O.N.U., ha costituito un punto d’arrivo di una lotta accanita, lunga cinquant’anni, contro un popolo, perché contasse sempre di meno sulla propria terra e con l’intento più o meno dichiarato di estrometterlo totalmente.
Questo per quanto riguarda gli eventi che precedettero la spartizione. Per quanto riguarda invece gli ultimi cinquant’anni, tre sono i momenti essenziali di questa lunga storia, che devono essere analizzati per tentare di capire almeno la dinamica di questo processo di pace.
Innanzi tutto il complesso degli eventi che vanno dalla spartizione della Palestina del 1947 agli armistizi di Rodi del 1949, in secondo luogo la guerra del 1967 con l’instaurazione di un governo militare nei territori occupati ed infine il processo di colonizzazione degli immigrati ebrei prima, ma soprattutto degli israeliani, poi.
In realtà, è quest’ultimo il processo che ha caratterizzato, per più di un secolo, il conflitto fra palestinesi ed immigrati ebrei in Palestina, anche se ha assunto, a lungo purtroppo, l’aspetto di uno scontro arabo-israeliano.
Sarà però assolutamente necessario tenere anche conto della politica estera americana in Medio Oriente, lungo tutti questi anni, per rendersi conto che questo “processo di pace” non è uno sforzo di due paesi, da molto tempo in lotta, che cercano una soluzione per i loro popoli, in termini di giustizia e di tranquillità, quanto piuttosto un “patto leonino”, imposto dalla superpotenza mondiale egemone in questa fine secolo, e dallo Stato d’Israele alla ricerca di soluzioni sempre più “raffinate” di cancellazione dell’identità del popolo palestinese.
Abbiamo strutturato perciò questo saggio in quattro parti.
La prima riguarderà la nascita dello Stato d’Israele fino al 1967, la seconda riguarderà la guerra del 1967, l’occupazione militare della Cisgiordania e della striscia di Gaza e il processo di colonizzazione prima e dopo il 1967, la terza riguarderà il periodo che va dal 1967 al 1991 attraverso la guerra del Kippur, l’avvento della destra al governo in Israele, gli accordi di Camp David, la guerra del Libano, l’Intifada, e la guerra del Golfo. Infine la quarta descriverà gli accordi (Oslo I e Oslo II) e cercherà di “proiettarli nel futuro” (?), anche se la politica del governo Netanhyau è stata la meno adatta a creare speranze!



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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