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Cat.n. 089

Alessandra Lombardi

Dal “Gruppo di Difesa della Donna” alle prime elezioni democratiche (1944-1946).

ISBN 88-87296-80-4, 2002, pp. 88, formato 170x240 mm., € 10,00.

In copertina: Alberta Fantini Sambusida, dirigente del “Gruppo di Difesa delle Donne” di Pistoia.

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10,00

Questo libro è nato con lo scopo di ricostruire quella primitiva forma di organizzazione femminile – il “Gruppo di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà” – nata nel 1943 nell’Italia occupata e a Pistoia nel gennaio 1944, con l’intento di unificare gli sforzi di tutte le donne antifasciste in un organismo unitario mirante alla sconfitta del nemico nazifascista.
L’ottica privilegiata per condurre tale tipo di indagine è senza dubbio quella di “genere” che sola può evidenziare la specificità del contributo femminile alla lotta di liberazione e il suo significato rivoluzionario di rottura di antichi equilibri sociali e culturali.
Il concetto di “genere” facilita così una lettura e interpretazione del passato più completa ed esauriente.
«Non solo permette di evitare una storia di donne atomizzate, separate dal tempo storico, ma denaturalizza la storia dell’umanità attribuendole le sue reali dimensioni, maschile e femminile, ripartite in maniera uguale, ma intrinsecamente legate tra loro».
È così possibile rendere visibile il contributo femminile alla storia della resistenza, come pure indagare le cause della sua subalternità e confinamento in un’area specifica e differenziata da quella maschile.
Gaiotti De Biase è riuscita in modo esemplare ad esprimere tale concetto. Da un lato essa evidenzia la sfera del pubblico e del collettivo: luogo dove si esercita il potere maschile, «[...] il controllo del territorio, il diritto, la guerra, le grandi correnti di scambio, la scienza, la tecnica, la creazione culturale, l’economia [...]; ma anche tutto ciò che è caratteristico dell’invenzione, dell’innovazione, della decisione umana che si qualifica come dominio e modificazione della natura, organizzazione del tempo lineare».
Dall’altro l’area di intervento della donna: «i compiti femminili, la continuità della specie, la prima integrazione e l’equilibrio affettivo delle nuove generazioni, l’organizzazione quotidiana e la produzione per la sopravvivenza, il nutrimento e il vestito, il piccolo scambio o baratto, il ruolo del piccolo gruppo affettivo nel grande gruppo sociale, qualificati come ‘non eventi’ perché legati al ciclo ripetitivo della vita, alle necessità della natura, perché segnati dal mutamento lento e dalla stabilità, sottratti alle decisioni collettive, più un dato dell’istinto di sopravvivenza che del dominio dell’uomo sul suo habitat».Il senso della ricerca vuole essere così quello di recupero della memoria storica dell’esperienza femminile locale per ricomporre le due aree differenziate e sessuate, carenti dunque, perché unilaterali.
Le fonti analizzate per tale studio sono state diverse: storiografiche, documentarie e orali.
Uno degli aspetti più difficoltosi è stato il lavoro di ricostruzione di un “archivio” di documenti – peraltro molto scarsi – riguardanti la partecipazione femminile alla resistenza nella provincia, a causa dell’opera di filtraggio del notevole materiale archivistico necessaria ad isolare momenti di attivismo femminile.
Ho consultato i documenti depositati presso l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, gli Archivi Comunali della provincia, l’Archivio di Stato di Pistoia fornito di un vasto “Fondo C.L.N.” suddiviso in otto buste e inerente al periodo cronologico compreso tra il 1940 e il 1945. Insieme ai numerosi testi storiografici generali relativi alla storia delle donne, ho rivisitato le pubblicazioni locali alla ricerca di testimonianze della presenza femminile all’interno della resistenza pistoiese, rimanendo peraltro delusa dallo scarso interesse dimostrato verso l’argomento.
D’altro canto anche la consultazione della stampa locale dell’epoca evidenzia lo stesso vuoto informativo: rari sono gli articoli dedicati alle donne e ai loro problemi, nulli quelli inerenti all’attività del GdD.
Molto interessanti e preziose sono state invece le fonti orali. La memoria individuale è un utile strumento per integrare le fonti scritte; scelta obbligata poi nel caso in cui queste ultime manchino del tutto, come accade per il movimento femminile, poco incline alla conservazione dei propri documenti.
Spesso, attraverso un’intervista, può venire alla luce un certo vissuto – sentimenti, motivazioni psicologiche, retroterra affettivi e relazionali – che raramente emergono dai documenti scritti, prigionieri di un linguaggio burocratico ed ufficiale.
Perciò le interviste effettuate – anche se scarse in quanto molte componenti il gruppo sono morte o sono gravemente malate – sono state materiale prezioso, specchio dell’atmosfera del tempo, di sentimenti lontani ma ancora vivi, magari rielaborati col passare degli anni da una diversa maturità, tuttavia ancora validi e capaci di conferire alla rigorosità della costruzione storica maggiore umanità.
Ho cercato, quando è stato possibile, di incrociare le diverse testimonianze per vagliare accuratamente le notizie o lo svolgimento di un’azione. Permane tuttavia la possibilità di distorsione della realtà per persone che ricordano un evento risalente a molti anni prima e quindi l’eventualità che venga filtrato attraverso una memoria incerta.
L’analisi delle fonti orali è tuttavia fondamentale per chiunque voglia recuperare la memoria storica di quei giorni lontani, purché riesca a mantenere scisse le due voci dell’intervistato e dell’intervistatore.
È necessario fare parlare l’altra, senza volerle dare un’interpretazione.
«L’intervento non riduttivo – osserva Luisa Passerini – è quello di fare parlare effettivamente la soggettività dell’altra donna. Ci siamo riuscite là dove abbiamo messo in campo la nostra forza soggettiva evidenziandola nel processo interpretativo. Questo si è basato sul riconoscimento della dinamica fra uguaglianza e differenza. All’inizio l’interpretazione era prigioniera dello stupore ingenuo dell’altra da sé, primo passo verso l’uguaglianza dei soggetti, al di là dell’appiattimento indifferenziato. Ma lo stupore misurava la differenza in senso etnocentrico ed autocentrico: l’altra esprimeva concezioni del corpo, del lavoro, della storia diverse dalle nostre e da quelle correnti nelle discipline storico-sociali».
Attraverso le parole di ogni intervistata si avverte nostalgia, orgoglio per avere partecipato ad un periodo storico così importante, ma anche una sotterranea accusa al silenzio storico sulla attività femminile, del quale peraltro si sentono anche in parte responsabili, mancando loro l’iniziativa di archiviare documenti o scrivere in prima persona le vicende vissute, come invece hanno fatto gli uomini.
Devo comunque evidenziare che quelli che ho intervistato e cito nel libro sono stati molto utili per l’individuazione dei tratti salienti della personalità e fede politica di qualche compagna di lotta, come pure essenziale è stato il loro contributo alla ricostruzione di azioni condotte da donne, spesso in coordinazione con l’elemento maschile. Si vengono in questi casi a scoprire così tracce femminili ignorate o trascurate, ma anche riusciamo a ricomporre le due realtà, maschile e femminile, entro una stessa cornice storica che vide, anche se in modo ineguale, la partecipazione di entrambi i sessi.
L’ambito temporale della ricerca ricopre gli anni che vanno dalla nascita del GdD cittadino (gennaio 1944) alle prime elezioni amministrative e politiche del 1946.
All’analisi della composizione del gruppo – testimoniata da due documenti, ma sicuramente più estesa di quanto scritto, poiché si avvalse della collaborazione di molte altre donne non citate – fa seguito la descrizione dell’attività dello stesso in città come sulla montagna pistoiese.
La collaborazione con il C.L.N. e le formazioni partigiane quindi con l’elemento maschile, fu costante e contrassegnata da spirito di solidarietà e reciproca stima e rispetto.
Attraverso la resistenza le donne entrarono nella storia del paese, parteciparono alla lotta contro i nazifascisti nei ruoli più disparati: come infermiere, staffette, ospitando nelle loro case militari sbandati, più di rado entrando nelle formazioni e impugnando le armi.
Si parla così di “resistenza civile”, per indicare quella complessa e multiforme attività che le donne svolsero senza armi, con la sola forza della loro intelligenza, del loro coraggio e altruismo.
Tale esperienza – che assume forme diverse ed ha comunque alla base motivazioni legate alla struttura psicologica, affettiva, culturale di ognuna – fu comunque primo elemento di rottura di un certo tipo di modello femminile identificato con la sfera del privato e del servizio di cura.
Al termine della guerra i GdD poi si sciolsero e lasciarono il posto a nuove forme di associazionismo promosse dai due grandi partiti di massa, PCI e DC. L’U.D.I. (Unione Donne Italiane) e il C.I.F. (Centro Italiano Femminile), che furono i naturali eredi dei primitivi gruppi resistenziali, videro una massiccia presenza femminile in contrasto con la scarsa rappresentatività nei luoghi della politica istituzionale.
La concessione del voto, importante acquisizione di un diritto a lungo sospirato, cadde purtroppo in un grande vuoto culturale, che risentiva della cancellazione della memoria del movimento femminile prefascista, effettuata dal regime. Ne derivò che l’impostazione della politica femminile del dopoguerra si realizzò in base ad una concezione della donna come perno della vita familiare, tanto cara al fascismo e a quella cultura “familistica” sviluppatasi in Italia e all’estero nell’immediato dopoguerra.
La nuova figura sociale e politica della donna, così come era emersa dalla grande avventura della guerra e della resistenza, non fu occasione di dibattito all’interno della società del tempo.
Le prime elezioni amministrative e politiche del dopoguerra furono il primo banco di prova dell’effettiva presenza femminile nelle strutture portanti del paese e quindi emblema della effettiva rottura con il passato.
Poche furono le donne elette nell’Assemblea Costituente – 21 su 556 deputati, pari al 3,6%, nonostante il più soddisfacente risultato conseguito nelle elezioni amministrative che videro duemila elette nei consigli comunali italiani.
«Dichiarata maggiorenne d’ufficio alla fine della guerra dalla Costituzione che riconosceva parità civile e giuridica a tutti i cittadini senza distinzione di sesso – sostiene Carla Ravaioli – e ritrovatasi perfino con una scheda elettorale in mano (concessale com’è noto in virtù di un preciso calcolo politico, ciò che comunque non diminuisce il valore del fatto compiuto), in effetti la donna italiana era appena nata».


Dalle elezioni uscirono vittoriosi i grandi partiti di massa che, come abbiamo visto si erano impegnati nella strategia del consenso finalizzata ad assicurare loro una grossa fetta dell’elettorato femminile.
DC, PCI e PSIUP ottennero infatti nella media nazionale il 74% dei voti.
Il PCI raggiunse il 19% dei suffragi e 104 costituenti, tra i quali nove donne: Bei, Gallico Spano, Iotti, Mattei, Minella, Montagnana, Noce, Pollastrini e Rossi.
Il PSIUP ottenne invece il 20,7% con 115 seggi e due donne: Merlin e Bianchi.
La DC ebbe il 35% dei voti e 207 costituenti, tra i quali nove donne: Bianchini, Conci, Delli Castelli, De Unterichter Jervolino, Federici, Guidi, Cingolani, Nicotra, Titomanlio.
40 seggi andarono poi a gruppi moderati; 30 all’Uomo Qualunque, che ebbe anche una donna eletta, Penna Buscemi.
23 seggi furono poi ottenuti dai repubblicani, che non ebbero donne tra gli eletti; e infine 7 seggi andarono al PdA, anch’esso privo di elementi femminili tra i suoi costituenti.
Le donne elette appartenevano in prevalenza alla classe media: dodici erano laureate in lettere ed una in chimica; una era casalinga (U. Q.) e due operaie (PCI).
Ventuno dunque furono in totale le elette (211 erano state le candidate) su 556 deputati, pari al 3,61% dell’intero consesso.
Bianca Bianchi e Teresa Mattei furono elette nel collegio Pistoia-Firenze, nel quale il PCI ottenne cinque seggi, la DC quattro e il PSIUP tre.
I candidati pistoiesi eletti furono quattro: Abdon Maltagliati (PCI), Palmiro Foresi (DC), Attilio Piccioni (DC) e Lini Di Gloria (PSIUP).

Contrariamente alla tendenza emersa a livello nazionale, il PCI si rivelò il partito più forte della provincia: ottenne infatti il 34,4% dei voti con punte di oltre il 60% in due Comuni (Lamporecchio, 63,9%; Larciano, 60,1%) e di oltre il 40% in altri tre (Monsummano Terme, Pieve a Nievole, San Marcello Pistoiese). Risulta ancora più evidente la scelta di sinistra della provincia se si analizzano i risultati elettorali del PSIUP (terzo partito con il 22,4% di voti e punte superiori al 30% nei due Comuni di Serravalle Pistoiese e Massa e Cozzile del PdA (1,8%) e del Partito Cristiano Sociale (0,7%). In tal modo lo schieramento di sinistra raggiunse il 59,7% dei voti.
La DC ottenne invece il 28,6% dei voti con punte massime del 42,7% ad Agliana e del 42% a Quarrata.
Per una concreta verifica della partecipazione femminile alla vita politica è importante analizzare e soprattutto quantificare la presenza delle donne nei Consigli Comunali che si ricostituirono in forma democratica nel primo dopoguerra.
Nelle elezioni amministrative che si svolsero in turni diversi dal marzo al novembre 1946, furono elette oltre duemila donne, con qualche eccezionale episodio di “donna Sindaco” e più numerosi casi di “donne assessore”.
Per quanto concerne la nostra provincia, in ogni Comune si costituì, con l’unica eccezione di Pistoia, una lista unitaria PCI-PSIUP sotto la denominazione di “Blocco popolare della Ricostruzione”, che spesso raccolse anche azionisti e repubblicani.
Vediamo dunque il calendario delle elezioni. Il 24 marzo 1946 si andò alle urne nel Comuni di Agliana, Massa e Cozzile, Monsummano e Montale; la domenica successiva, il 31 marzo, si votò invece a San Marcello, Abetone, Cutigliano. Il 7 aprile fu la volta di Pescia, Ponte Buggianese, Uzzano e Chiesina Uzzanese; il 6 ottobre si votò a Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Marliana, Montecatini, Piteglio, Sambuca, Pieve a Nievole, Serravalle e Quarrata. Infine il 24 novembre a Pistoia.
Le donne elette nei venti Comuni della provincia di Pistoia furono solamente tredici. Tesi Argentina (atta a casa, PCI) ad Agliana, Bonelli Olinda a Massa e Cozzile; Giulia Faldi (PCI) a Monsummano; Orsi Bice (PCI) a Ponte Buggianese; Nardi Grassi Maria Luisa (atta a casa, PdA) ad Uzzano; Baldi Giuseppina (PCI) a Larciano; Stefanelli Norma (PSI) e Vannelli Leda (PCI) a Montecatini Terme; Giannulli Giacomina e Orsucci Dina a Pieve a Nievole; Roberti Roberta (professoressa, PCI) a Quarrata; Mostardini Dina (impiegata, DC) e Calamari Iole Milena (professoressa, Blocco Popolare della Ricostruzione) a Pescia.
A séguito delle elezioni che si svolsero nel Comune di Pistoia il 24 novembre 1946, furono eletti quaranta consiglieri: i comunisti ne ottennero 19, i democristiani 10, i socialisti 6, i liberali 4 e i repubblicani 1.
Fu eletto Sindaco il comunista Giuseppe Corsini.
Solo tre donne tuttavia entrarono a far parte del Consiglio Comunale: Nora Vannucci per la Democrazia Cristiana (9043 voti), Taddeoli Laura per il Partito Socialista (6217 voti), Renata Marchionni per il Partito Comunista (16724 voti).
Due di loro, Laura Taddeoli e Renata Marchionni, entrarono poi a fare parte della Giunta: la prima come assessore effettivo (25 voti), la seconda come assessore supplente (25 voti).178
Colpisce la scarsa rappresentatività dell’elemento femminile all’interno del primo Consiglio Comunale cittadino, ma tale dato è purtroppo confermato anche dalle successive elezioni.
Dal 1946 al 1998 le donne elette nei diversi Consigli comunali pistoiesi sono state solamente trentuno.
Tra di loro troviamo una delle componenti il GdD cittadino, Maddalena Agnoletti (PCI) eletta per ben tre volte (nel 1960, 1965, 1980) e Fiorenza Fiorineschi (DC) anch’essa consigliere comunale nel 1951, 1956 e 1970.
La maggiore concentrazione dell’elemento femminile si è comunque avuta nel 1994, quando furono elette nove consiglieri donne: tra queste troviamo anche la prima Presidente del Consiglio comunale, Monica Bani.
Tuttavia, a parte questa punta massima registrata nel 1994, la percentuale delle donne elette nei diversi consigli comunali rimase sempre molto bassa. Si passò infatti dalle tre elette nel 1946 alle due del 1951, di nuovo alle tre nel 1960 e nel 1965 alle cinque nel 1970, per arrivare poi ad una nel 1975, di nuovo quattro nel 1980 e 1985, nove nel 1994, di nuovo cinque nel 1990 e infine quattro nel 1998.
Dal 1946 al 1996 ci sono state solo nove donne elette nei Consigli di Circoscrizione; quattordici nei Consigli della Provincia; tre nel Consiglio della Regione e una al Parlamento europeo nel 1994. Troviamo tra le donne elette alla Camera dei Deputati Maria Teresa Capecchi (1987) e Renata Marchionni (1958).
Risulta evidente la scarsa presenza femminile a livello di strutture comunali e provinciali, riscontrabile peraltro anche all’interno dello stesso Parlamento. Le deputate italiane scesero infatti dalle 41 del 1948 alle 33 del 1953, fino alle 17 del 1968, superando il numero della prima legislatura solo nel 1976, quando arrivarono a 51.
Questo dato non troppo confortante va comunque ricollegato non tanto al numero delle elette – evidenzia la Doria – bensì a quello delle candidate che sicuramente, per quanto concerne le prime elezioni democratiche del paese, fu molto esiguo. Il 2 giugno furono elette infatti 21 donne su 556 deputati, quota corrispondente al 3,7% del totale. Bisogna però tenere presente che le candidate erano state 226 in totale. Se dunque facciamo un raffronto con il numero dei candidati uomini vedremo che, avendo presentato i tre partiti di massa uniti il 6,5% di candidate, ne furono elette più della metà e in numero maggiore degli uomini.
Per quanto concerne le elezioni amministrative svoltesi nella nostra provincia, è stato impossibile fare tale tipo di raffronto, poiché mancano – a parte alcune eccezioni – le liste delle candidate.
Nonostante ciò e al di là di ogni calcolo elettorale, la conquista del voto fu per la donna importante proprio dal lato soggettivo, per l’alto valore simbolico ad esso attribuito. Non solo finalmente si conquistava il “diritto” di essere “cittadine”, si entrava sulla scena pubblica, ma soprattutto si sperimentava una nuova libertà personale, preludio di successive trasformazioni e realizzazioni come “individui”.
A partire dal modello francese del suffragio universale il concetto di uomo e cittadino si era identificato con il maschio adulto, per cui alla donna si era negata l’individualità, in quanto ritenuta mancante di due requisiti essenziali: l’indipendenza dalla volontà altrui e il possesso della propria persona.
Ancora più difficile era la situazione delle donne sposate, del tutto prive di diritti civili fino al ’900. Si venne così ad identificare il ruolo femminile con quello di madre e di moglie e ad operare la sua rigida esclusione dalla sfera pubblica.
Ancora più complessa la situazione per quanto riguarda l’Italia, dove la diversità delle culture locali, da un lato, e la grande influenza della cultura cattolica, dall’altro, resero ancora più stretto il legame tra la donna e il nucleo familiare. Il fascismo poi non fece che rinsaldare tale modello di identità femminile basato sull’estensione nella sfera sociale del ruolo materno.
La partecipazione femminile al movimento antifascista e alla Resistenza fu invece un momento essenziale nel cammino di lotta intrapreso dalle donne nel tentativo di superare l’“inferiorità politica”, ma purtroppo essa non riuscì a tradursi nell’affermazione di una nuova figura di donna in campo politico. Ad un’iniziale euforia ed emozione, legata alle nuove speranze connesse all’acquisizione del diritto-dovere del voto, seguì una brusca involuzione e la “donna-cittadina” venne di nuovo chiusa entro gli angusti confini domestici e civili. A liberazione avvenuta l’attività femminile maggiore fu esercitata negli organismi di autogoverno locale, quindi di democrazia diretta: Giunte, C.L.N., libere associazioni, comitati per la vigilanza annonaria e controllo dei prezzi e alloggi, oppure in organizzazioni per l’assistenza ai reduci, ai bambini. Ancora una volta si trattò dunque della realizzazione di una forma di “maternità sociale” estesa alla colletività e limitata a istituti di democrazia diretta e non rappresentativa. Per cui anche la storia politica successiva sarà contrassegnata da una rigida divisione di ruoli: alla donna la gestione dei rapporti col sociale e le problematiche locali, mentre all’uomo la politica ufficiale, il potere governativo.




Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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