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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 138

Marco Apolloni

La religione in Jean-Jacques Rousseau. 

ISBN 88-7588-020-4, 2008, pp. 96, formato 140x210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [40].

In copertina: Rousseau nella sua camera all’isola di Saint-Pierre, Parigi, B. N. (Snark).

indice - presentazione - autore - sintesi

10,00

Introduzione di Augusto Illuminati

Se l’antropologia russoiana si svolge intorno al vuoto, sospesa sull’abisso del nulla, se la scena della festa – sola e autentica rappresentazione    mostra anch’essa il nulla, se insomma la trasparenza non ci fa accedere ad altro se non all’autoreferenziale verità del popolo e del cuore, offrendoci simultaneamente il contenuto della legge come volonté générale, come allora morale e religione possono trovare un fondamento ovvero trovarlo senza lacerante contraddizione? 

Procediamo con ordine, partendo dalle pagine dedicate da Louis xe "Althusser, L."Althusser a xe "Rousseau, J.-J."Rousseau nel saggio del 1982, La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro. Egli prende in carico alcuni noti passi del Ixe "*Discorsi sulle scienze e sulle arti e sull’origin"I Discorso e del xe "*Saggio sull’origine delle lingue"Saggio sull’origine delle lingue come testimoni di uno stato senza alcuna relazione sociale positiva o negativa: la foresta primitiva popolata da individui senza incontro, corrispettivo del vuoto epicureo nel quale cade la pioggia parallela degli atomi. Un niente di società anteriore e condizione di possibilità per ogni società, inquieta teorizzazione della produttività del vuoto. Il contatto sociale vi si impone con la casualità di una catastrofe, stabilizzato dalla ripetizione temporale che crea una natura umana socializzata per accumulazione di passioni, commerci amorosi, atti linguistici, conflitti. Accoppiamento di perfettibilità e pietà, società come difetto, carenza, che non fonderà mai alcuna essenza umana, ma solo la perpetua apertura all’incontro, a quella “presa” dell’aleatorio che è la storia, almeno quella riuscita. Contingenza della necessità e necessità della contingenza, senza Origine né Fine, in un’area prossima a quella di xe "Machiavelli, N."Machiavelli e xe "Spinoza, B."Spinoza. Nel contratto russoiano, sospeso sull’abisso del nulla, che deve «aggiustare una forma illegittima (la corrente) in forma legittima», vediamo in opera un antifinalismo della storia che vi irromperà praticamente con la Rivoluzione francese, fine anticipata di una storia della necessità e precondizione di ogni autentica teoria della storia come incontro e scontro di essenze singolari, individuali e collettive: persone, stati, partiti, classi. Il risvolto è la possibilità, soggiacente a ogni impegno pedagogico e politico, di rifluire nella solitudine e nel silenzio di un contatto immediato con la natura: esito biografico dell’autore, sempre in bilico fra Città virtuosa platonico-farabiana e Regime del solitario (per riprendere un motivo dell’andaluso medievale xe "Avempace (Ibn Bagiah)"Avempace, così singolarmente anticipatore del Nostro). Singolarità e passione sono la riserva fuori dalla sfera politica, l’altro dalla socializzazione, il privilegio incancellabile garantito non dal contratto, ma dalla base vuota di esso, dal niente di società sottostante all’innaturale socialità. 

L’ossessione russoiana per la trasparenza opposta all’opacità, per l’immediatezza contro la mediazione, produce risultati ambigui. Il gesto rappresentativo tradisce invariabilmente la verità: ogni presa di parola o messa in scena sfigura l’autenticità interiore. La verità, come la volontà generale, è a rigore irrappresentabile. Come può allora farsi valere la verità, come venire incontro con i mezzi dell’arte all’umanità smarrita, come svolgere la mediazione per restituire agli uomini l’immediatezza? Il problema si poneva già nel xe "*Discorsi sulle scienze e sulle arti e sull’origin"I Discorso – discorso contro i discorsi, capolavoro letterario contro la letteratura, atto d’accusa ai salotti letterari che lo acclamarono. E in effetti quello fu, al dire di xe "Rousseau"Jean-Jacques, l’inizio di tutte le sue sventure. La stessa contraddizione si manifesta al quadrato nella rappresentazione teatrale: qui il vizio della mediazione è potenziato dalla maschera dell’attore e dagli effetti sociali dello spettacolo come occasione di incontro e confronto sociale. Lo spettacolo – scrive Rousseau nella xe "*Lettera a D’Alembert"Lettera a D’Alembert – offre un’illusione di comunione ma opera in realtà in senso opposto: «si crede di riunirsi allo spettacolo, ed è là che ciascuno si isola». Tanto meno si ha comunione effettiva con il contenuto anzi, nella stessa misura in cui fallisce il rapporto comunitario, ci si apre all’attenzione per l’irrilevante, per l’immorale: «là si vanno a dimenticare amici, vicini, parenti, per interessarsi a favole, per piangere le disgrazie dei morti, o ridere a spese dei vivi». Il teatro non può modificare positivamente i costumi, ma soltanto peggiorarli offrendo occasioni di sfoggio vanitoso ed esibizionistica prodigalità – per tacere dell’infamia strutturale dell’attore, che per mestiere finge un carattere differente dal proprio, mente con la naturalezza di chi realmente pensa una cosa e dimentica il proprio posto a forza di prendere quello di altri. Nel teatro viene codificato e retribuito quell’apparire in luogo dell’essere, che contrassegna la vita mondana delle grandi città, dove trionfa la menzogna e i princìpi che valgono nelle conversazioni non sono gli stessi che si adottano nella pratica. Maschere in luogo di uomini. Basti citare le lettere parigine di Saint-Preux nella Nouvelle Héloïse.

I rimedi sono però altrettanto equivoci. Non c’è solo la contraddizione biografica russoiana dello scrivere (e dello scrivere per il teatro!), ma anche quella insita nella proposta alternativa all’artificiosa messa in scena: la spontaneità della festa. Nella citata xe "*Lettera a D’Alembert"Lettera la festa si oppone come magia buona a quella cattiva del teatro; il suo carattere pubblico, persino il suo svolgimento all’aria aperta contrasta diametralmente con gli spettacoli che rinchiudono un piccolo numero di persone in un antro oscuro, offrendo loro avvilenti immagini della servitù dell’ineguaglianza.


«No, popoli felici, non sono queste le vostre feste. All’aria aperta, sotto il cielo vi dovete riunire per abbandonarvi al dolce sentimento della felicità [...]. Che cosa vi si mostrerà? Niente, se si vuole».


Illusione comunitaria senza contenuto, dove cade la separazione scenica per il fatto che ognuno è allo stesso tempo spettatore e attore e si attua un ritorno a sé dell’essere, bruciata magicamente ogni mediazione. Allo stesso modo il cittadino, nel xe "*Il contratto sociale"Contrat social, è insieme membro del corpo sovrano e membro sottomesso dello Stato, legislatore e suddito, vuole la legge e le obbedisce. La volonté générale è immediatezza dell’universale, senza accordi precedenti fra particolari e senza applicazione finalizzata a casi particolari. Autoreferenzialità ottica, trasparenza del nulla e insieme inquietante sorveglianza totale, come nel circo progettato per le assemblee popolari dall’architetto russoiano Boullée: esse offrirebbero uno spettacolo sorprendente proveniente esclusivamente dagli spettatori stessi, ognuno dei quali guarda ed è guardato dagli altri senza riparo. Il panoptico, insomma, della democrazia, che solo un filo separa dal panoptico del carcere. Lo stesso mito della festa consiste nel far sì che il popolo creda di dire a se stesso ciò che dovrebbe essere, la propria utopia, e divenga pertanto l’educatore di se stesso – mentre invece segue le indicazioni di un suggeritore occulto. Allegoria evidente di una socialità sognata, in cui la manipolazione didattica (per esempio, del Legislatore-Demiurgo) si compie “a fin di bene”, magari rafforzandosi con un uso accorto di onori e spettacoli. 

Un’altra prospettiva prenderebbe in carico quel “nulla” come un vuoto destinato a restare tale, a impedire e non a favorire la fusione, a vietare che gli uomini si caschino addosso l’un l’altro. Un po’ come l’infra arendtiano, lo spazio politico quale intervallo che si interpone fra gli uomini e ne consente la comunicazione. In tal caso si spiegherebbe il costante appello russoiano al ripiegamento sull’indipendenza e le avvertenze sulla difficoltà quasi insormontabile per pervenire al contratto sociale.

Non dimentichiamo il passaggio del III capitolo del xe "*Il contratto sociale"C. S. in cui Rousseau ipotizza il caso-limite della rottura del patto sociale per comune accordo dei cittadini, citando positivamente l’opinione di Grozio per cui ciascun cittadino (dunque a maggior ragione il loro insieme riunito) potrebbe «rinunciare allo Stato di cui è membro e riprendere, uscendo dal paese, la propria libertà naturale e i propri beni». Il mito (platonico) dell’esilio sottostà a tutta la vita e opera di Rousseau, prorompendo finalmente in un celebre passo delle xe "*Le fantasticherie del passeggiatore solitario"Rêveries d’un promeneur solitaire, non esente da tracce di delirio persecutorio:

Eccomi dunque solo sulla terra, senza più fratello, prossimo, amico; senza altra società che me stesso. Il più socievole e amoroso degli uomini è stato proscritto per accordo unanime [...]. Strappato non so come dall’ordine delle cose, mi sono visto precipitare in un caos incomprensibile dove non scorgo nulla di nulla, e più penso alla mia situazione presente meno riesco a comprendere dove mi trovo [...]. Tutto è finito per me sulla terra. Non mi si può fare più del bene né del male. Non mi resta nulla più da sperare o da temere in questo mondo ed eccomi tranquillo nel fondo dell’abisso, povero mortale sventurato, ma impassibile come Dio stesso. Tutto ciò che mi è esterno ormai mi è estraneo. Non ho più in questo mondo né prossimo né simili né fratelli. Io sono sulla terra come su un pianeta straniero, dove fossi caduto da quello che abitavo.

 Torniamo ora alle problematiche morali e religiose. Il cristianesimo di Rousseau è certamente esente da qualsiasi incrostazione confessionale e clericale e neppure comporta il peccato originario, affidando l’uomo decaduto (per ragioni casuali) a una redenzione meramente politica – come da lungo tempo dimostrato da Ernst xe "Cassirer, E."Cassirer. La sua reinterpretazione del teismo è dunque, come afferma Apolloni, realmente anomala e il bisogno di credere è decisamente più forte delle ragioni per credere.

Quando egli scrive che «se la divinità non esiste, solo il malvagio ragiona bene e il buono è uno stolto», è evidente la sua ripulsa tutta morale e la sua convinzione (citiamo ancora Apolloni) che una sola anima pura costituisca un autentico toccasana per l’intero genere umano. La Confessione del Vicario savoiardo è una brillante apologia di un cristianesimo riportato al suo nucleo primitivo, anteriore a ogni dogmatizzazione.

Resta però il problema che questa perfetta “religione del cuore” non funziona per il cittadino, dato che comunque il perfetto cristiano è uno straniero in questo mondo e resta indifferente a un impegno politico sostanziale. La religione civica, ripresa largamente dallo xe "Spinoza, B."Spinoza del Trattato politico (che non contraddiceva affatto alla teoria della potenza), fa a pugni con il cristianesimo epurato della “religione dell’uomo”. Infatti essa è più vicina al patriottismo pagano (seppure esente da qualsiasi intolleranza) che al messaggio di Cristo.

Ritorna qui, sotto il profilo religioso, l’antinomia fra l’impulso alla giusta socializzazione e la riserva mentale all’esodo dalla società. In tale materia non ci può essere assenza di fondamento (come per l’antropologia e la storia ipotetica dell’umanità) ma vige una contraddizione fondante, che nella scissione fra homme e citoyen prefigura quella giovanile marxiana fra bourgeois e citoyen.




Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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