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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 142

Mungai Massimo

Impronte di un uomo ordinario. Pensieri e poesie

ISBN 88-7588-023-9, 2009, pp. 64, formato 140x210 mm., Euro 10.

In copertina: R. Magritte, Ritratto d’Eduard James (La reproduction interdite), 1937. Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen.

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10,00

Impronte di un uomo ordinario è un percorso introspettivo nell’animo di un uomo fra i tanti, con passioni e idee non propriamente “pure”, ma giocoforza condizionate dai media, tuttavia con sprazzi di umanità scarsamente amalgamabili dentro l’attuale società, dove il calcolo ha ormai il sopravvento sulla vita.

Ho posto la mia attenzione sul “mal di vivere”, aspetto dell’esistenza discusso e dibattuto da pletore di eminenti studiosi, che ha preso dimensioni psicopatologiche enormi a partire dal secolo scorso.

Non ho la pretesa di voler per forza aggiungere qualcosa di originale, al contrario, lo scopo di questo lavoro è di indossare come ogni giorno capita alla stragrande totalità delle persone, proprio la veste di autentico e genuino uomo ordinario, non per ipocrita falsa modestia, ma a causa (o in virtù?) della mia vicenda umana, formalmente diversa e unica, ma sostanzialmente indistinta nell’oceano della storia.

Postulando pertanto, che “il mal di vivere” fa parte della società industriale, avverto chiaramente e con angoscia la frattura definitiva tra il mio modo di pensare e la realtà e mi sento “spersonalizzato”, “disumanizzato”, “disintelligenziato”.

Oramai “i tempi sono cambiati”, come afferma Aldo Palazzeschi e gli uomini “non domandano più nulla ai poeti”, a quei poeti che altro non sono che “articoli di non prima necessità” come sentenzia Guido Gozzano.

La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del novecento.

Già un poeta “vero” come Eugenio Montale affronta il problema con la poesia Spesso il mal di vivere ho incontrato; qui il poeta esprime la propria negativa visione della vita: essa scaturisce dall’incontro con il mal di vivere.

Montale descrive in pochi versi il disagio esistenziale, il pessimismo radicato dovuto alla consapevolezza che il dolore, il male appunto, si scaglia sugli esseri viventi e sulle cose senza risparmiare nessuno. L’unica via di scampo va ricercata nella divina Indifferenza (c’è da sottolineare che nel pensiero occidentale già 2500 anni fa gli stoici parlavano di indipendenza dalle passioni – apàtheia – ovvero la capacità di conservare in ogni situazione l’impassibilità); è grazie all’indifferenza che l’individuo può assumere un atteggiamento di insensibile immobilità, di lontananza che cancella la coscienza del dolore.

È il male dell’«essere», in quanto ci impedisce di avere delle certezze, di conoscere la realtà e noi stessi. Ciò che tortura Montale è condiviso ad esempio, anche da Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo.

La faticosa autoanalisi dell’uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia. Il poeta deve affidarsi alla parola, ma ad una parola scabra, disseccata, trasparente, che immediatamente faccia affiorare dalla coscienza lacerata sentimenti, emozioni, oggetti, paesaggi.

Siamo nel campo di una visione ben delineata da un discusso, ma geniale filosofo contemporaneo, Umberto Galimberti, «L’età della tecnica passa e ci trasforma determinando la caducità del pensiero problematico e portandoci verso un futuro di psicoapatia e insensibilità».

La cultura francese supera “la nausea e l’angoscia”, derivate dalla scoperta dell’assurdo e del vuoto dell’esistenza quotidiana, con la teoria di Jean Paul Sartre dell’impegno, per cui l’uomo si definisce e si autorealizza solo nell’agire, nello scegliere, nell’assumere giorno per giorno, istante per istante, le proprie responsabilità. L’impegno, la scelta della responsabilità politica, la non complicità col male divengono un modo nuovo di essere dell’uomo e dell’intellettuale nel mondo, una risposta alla disperazione esistenziale, ma è un percorso dentro il quale non mi ritrovo completamente ed a pieno titolo, perché postula inequivocabilmente ciò che il nostro contemporaneo rispondente al nome d’arte di Carl William Brown, afferma: «Dio non esiste perché se esistesse non ci avrebbe creato, ma siccome noi siamo qua egli non può esistere». Un aforisma che rafforza un’idea di Andreas Feuerbach: «Non è Dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo che ha creato Dio».

Sono pensieri che oggi riscuotono un gran seguito.

Vale, a mio avviso, il conosci te stesso dei nostri padri greci e ciò che Italo Calvino ci insegna: «La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso».

Questo il primo “step” fondamentale.

Socrate sosteneva che coloro che “filosofano dirittamente” sono individui che si esercitano a morire. Può sembrare un paradosso, ma tale esercizio migliora sensibilmente la qualità della vita, perché ci rende consapevoli dei nostri limiti umani.

La nostra paura primaria è indiscutibilmente e senza la minima ombra di dubbio la paura della morte. L’uomo è facilmente distraibile da chimere come il potere e la ricchezza come se esse potessero garantirgli l’immortalità. L’amara verità è che non fanno che renderlo solo.

Possiamo scegliere di lottare contro la solitudine, fine ultimo dell’avversario della vita (il Sat’an della cultura giudaico – cristiana) ed il passo successivo alla conoscenza di noi stessi è la ricerca di una nuova spiritualità, l’approccio ad una visione “religiosa” che vada a lavorare profondamente nella psiche scossa dell’uomo dei nostri tempi.

È in questo che intravedo una speranza di risoluzione del “mal di vivere”.

La strada maestra è riuscire a metabolizzare che alla morte non si contrappone la vita, ma l’amore e mi ha colpito il fatto che questa dicotomia viene di tanto in tanto esplicitata sui mezzi di informazione. Cos’è allora che alla quasi totalità di noi è impedito ascoltare e riflettere?

Blaise Pascal docet: «C’è abbastanza luce per vedere, ma anche abbastanza tenebra per non vedere».

Spero che questo mio lavoro che ho voluto dividere in tre parti possa contribuire a stimolare una riflessione.

Nelle prime due, le poesie sono precedute da brevi commenti di taglio psico-sociologico, assolutamente non esaustivi, ma che mi auguro abbiano la forza di stimolare la curiosità del lettore ed indurlo all’approfondimento di questi temi.

La terza parte l’ho intitolata Tre Vite e, come vi renderete conto leggendo, non c’è la necessità di alcun commento.

A tutte le poesie ho aggiunto, a sostegno dei temi trattati, celebri aforismi di uomini straordinari.

Chiudo rifacendomi ad un pensiero di Ezra Pound: «Meno sappiamo e più lunghe sono le nostre spiegazioni”.

Buona lettura!


MASSIMO MUNGAI




Carissimo Massimo,

l’atteggiamento che assumi nell’affrontare il tema del male del nostro tempo, il male di vivere, è quello dell’uomo della strada, dell’uomo comune, nella consapevolezza che ormai il “male” è diventato una “pandemia” che attanaglia tutti, dall’intellettuale, all’artista, allo scienziato, all’industriale, all’operaio, fino al misero ultimo residuo scartato dalla nostra società. Nell’attingerti a rivelare a te stesso, mettendo su carta il frutto delle tue riflessioni poetiche, confessi l’inutilità della funzione del poeta al quale nessuno chiede ormai più nulla nella certezza che egli non abbia più niente da dire se non rivelare a se stesso la misera condizione di “servo inutile”.

Il poeta “Vate”, capace di indicare da un piedistallo che lo colloca al di sopra delle umane miserie in virtù proprio della sua capacità di essere maestro della parola e dei sentimenti, rivela proprio tutti i limiti dell’umano faro di salvezza capace di indicare all’umanità la via da seguire per perseguire un “umanesimo” di verità e di giustizia. Lo stesso Carducci, ultimo vate, non riuscì che a cantare una società che si è rivelata parziale, disumana, ingiusta e prevaricatrice.

Da qui la reazione dei poeti che citi, i quali disillusi dalle risposte positiviste che avrebbero risolto tutti i mali dell’umanità, non trovarono altro che rifugiarsi nell’amara constatazione di una condizione esistenziale che è intrisa di dolore e di frustrazione e quindi incapace ad essere compresa e tanto meno ad essere dominata. La vita è una malattia che non lascia scampo e che impedisce di vedere oltre il muro dell’esistenza e che non ha risposte da dare a chi le chiede se non in negativo: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. C’è solo il “falco alto levato” come un destino implacabile e impenetrabile che non lascia spazio ad un dialogo che chiarisca i termini dell’esistenza.

Si tratta di una visione della realtà che scaturisce dai grandi disastri che hanno caratterizzato il secolo ventesimo: la prima e la seconda guerra mondiale. Mai l’umanità era scesa così in basso e mai l’uomo aveva sperimentato in tutta la sua disumanità l’impatto con gli istinti più bestiali di cui era capace. Ungaretti non può che dire che il suo “cuore è il paese più disastrato” e Quasimodo evoca “l’andare nei campi” di Caino per uccidere suo fratello. Ed anche la forma poetica si ritrae in un ermetico rigore formale quasi cercando di nascondersi in un difficile disgelarsi di sentimenti che manifestano altro che l’esistenziale travaglio del poeta.

Anche la soluzione sartriana rivela tutta la sua incapacità a trovare una soluzione nell’agire politico come soluzione alle problematiche esistenziali, specialmente ala luce degli ultimi avvenimenti che hanno rivelato come le soluzioni ideologiche non hanno risolto affatto le istanze di giustizia, di libertà, di eguaglianza, di autorealizzazione cui ogni uomo aspira. Il crollo delle ideologie espone ancora di più la situazione umana, specialmente quella che si esprime nella cultura occidentale, in una angoscia esistenziale la cui soluzione si allontana sempre più nell’evidente confronto di una “mondializzazione” che evidenzia solo gli aspetti economicistici a discapito delle evidenti disparità umanitarie con l’aggravante che anche il pianeta terra sta collassando sotto l’influsso di un depauperamento ecologico che si aggrava di giorno in giorno.

Quale soluzione dunque? Quesito non facile!

Certo il disincanto da una visione che considerava Dio come morto prende sempre più piede. L’affermazione di C. W. Brown che citi, rivela tutta la superba teoria che si possa fare a meno di una visione metafisica, perché presa in sé rivela tutta l’angoscia di essere dei figli senza un padre, contribuendo notevolmente ad alimentare il male di vivere di una umanità che naviga a vista in un mare di incongruenze soggettive ed oggettive. Il conoscere se stessi postula un’origine ed un fine, entro i quali collocare il “viaggio esistenziale” che ciascuno di noi è destinato a compiere con tutte le variabili in verticale ed in orizzontale ci è dato incontrare. Ci riconosciamo perché abbiamo intorno dei nostri simili, ci proclamiamo umani perché un essere superiore ci ama e ci aspetta.

La trascendentalità, che non nega l’impegno immanente ma lo stimola e lo vivifica, riemerge sempre più di fronte ai disastri che l’uomo, liberato dalla soggezione di Dio, ha causato e continua a causare all’umanità e all’universo intero.

Le forme religiose, tradizionali e nuove, attraverso le quali esprimere questa trascendentalità possono anche essere discutibili e perfezionabili e possono essere considerate come variabili dipendenti senza ledere il principio di una esigenza totalizzante che consideri l’uomo nel suo vivere e nel suo morire. Anche la conoscenza, dunque, può rappresentare una fonte di ricerca valida ed utile per indagare “l’infinito mistero dell’universo” in cui l’uomo è immerso, a meno che non pretenda di trasformare l’esistenza come na somma di nzioni che costituiscano un piedistallo dalla cui altezza qualcuno possa dire: “ecco, io vedo più lontano di tutti e quindi ho il diritto di esercitare il mio potere”. E il potere non è solo politico o economico, ma anche culturale e scientifico.

Mi pare che il richiamo al nonno rappresenti uno stimolo utile e fondamentale in quanto ci richiama alla semplicità di cui si nutre l’approdo finale a cui pervieni: l’Amore.

Questo termine compendia tutti gli aspetti del vivere: quello culturale, quello politico, quello religioso fino alla definizione stessa di Dio che egli stesso si dà: “Deus Charitas est”. Certo nel tempo questo termine ha subito molte interpretazioni e molte trasformazioni; oggi appare addirittura molto abusato e sicuramente, poiché è esso un termine semplice, non correttamente inteso in una società complessa come la nostra che tende a problematizzare tutto. Ma l’amore, nella sua dimensione orizzontale e verticale è il programma capace di dare a tutti, persone semplici o intellettuali, la possibilità di esprimersi ai massimi termini. Il moderno interesse che la cultura moderna sia laica che religiosa sta dedicando alla biblica sequenza dell’uso del tempo del “Quoelet”, sta a dimostrare come ciò che supera ogni e qualsiasi teorema umano e sia l’unica cosa che rimane è l’amore.

Proprio sull’amore debbo dire che la poesia “Il distacco”mi è molto piaciuta perché più intima, meno cerebrale, proveniente dalla corda del sentimento che tante volte è la corda più nascosta, relegata nel cassetto chiuso a chiave delle nostre intime sensazioni ed emozioni. Certamente è giusto che ciascuno abbia un “forziere” dentro il quale far confluire quella parte di noi che più ci appartiene e che è e rimane il luogo (o il rifugio) dove nascondere l’ideale “siepe” che permette di non rivelarci interamente agli altri. Conviene però anche dire che la poesia è proprio lì che si nasconde ed è quella corda che è necessario far vibrare quando vogliamo esprimerla e farla uscire dall’ambito del soggettivo per elevarla verso un’oggettivazione che si fa universale.

Questi versi, concettualmente esprimono proprio questo: la difficoltà a trasformare i sentimenti e le emozioni in segni palpabili e immediati espressi e spesi nel momento in cui vengono a verificarsi. Poi si sedimentano, si nascondono e spesso si banalizzano in atteggiamenti razionali formali e in linea con una cultura che tende a valorizzare più la forma che la sostanza, più l’allineamento a stereotipi convenzionali che all’abbandono in espressioni più emotive e istintuali.

È questo il frutto di una cultura che privilegia lo stereotipo dell’immagine più che la valorizzazione della profondità ancestrale della nostra umanità che si caratterizza e si distingue proprio perché capace di sentimenti e di emozioni che spesso vengono frustrate perché ritenute pregiudizievoli non tanto dell’essere quanto dell’apparire. Piangere è ritenuto per un uomo un segno di debolezza; il manifestare sentimenti nobili verso la propria amata è indice di sdolcinata mollezza inadatta all’immagine di uomo forte e duro. Invece non c’è niente di più nobile e umano che piangere o sentirsi veramente la “metà” intesa come complementarietà fra due esseri che insieme di completano.

Mi accorgo che sto scivolando verso il retorico o, ancora peggio, nel moralistico. Vorrei però cercare di reagire a quel “ladro di ricordi” che tu giustamente denunci con forza che è l’oblio, ribattezzato da Freud con il brutto termine di rimozione. È necessario a parere mio cercare di esprimere “in diretta” le reazioni agli stimoli che interessano i sentimenti per creare poi ricordi belli, maturi, condivisi, anche se, talvolta, conflittuali. L’amore, che è il motore di ogni sentimento, va subito accolto, manifestato e consumato; sia sul piano degli affetti parentali sia su quello relazionale e sociale e tradotto in opere concrete: così come nella donna con la quale viene deciso di condividere la realizzazione di un progetto di vita.

Mi pare che una siffatta impostazione presupponga una visione anche metafisica dell’esistenza non fosse altro che per mitigare e rendere più umani i distacchi quando questi si fanno definitivi. I ricordi non bisogna farseli rubare dall’oblio, ma portarli quotidianamente con noi, materializzarli in un dialogo non feticistico, ma vivo come se ciò che non c’è più, riviva nel nostro essere, nelle nostre tasche, nel nostro quotidiano in un dialogo che non trova fine. Non si tratta di sublimare ma di trasportare una realtà in una dimensione più alta che è anche più poetica.

Ho trovato il tuo scritto molto interessante che merita di essere conosciuto. Anche la poesia, che non trovo affatto ermetica, esprime bene i tuoi sentimenti anche se, talvolta, si irrigidisce un po’ quasi paurosa di esprimere fino in fondo la tua sensibilità. Non avere paura ad esprimere tutta la capacità di amare che, insieme alla conoscenza filosofica e culturale, costituisce l’anima della tua personalità così ricca d’umana comprensione..


Ti saluto caramente,


Tebro.




Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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