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Cat.n. 191

Claudio Lucchini

Il cervello e il bene. Considerazioni sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratico. Presentazione di Giacomo Pezzano.

ISBN 978-88-7588-100-9, 2012, pp. 96, formato 140x210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [48].

In copertina: Michelangelo Buonarroti, «Prigioni», 1520-1534 circa; Firenze, Galleria dell'Accademia. In prima di copertina: Atlante; in quarta: Schiavo che si desta.

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10,00

Presentazione di Giacomo Pezzano

 

I tre saggi qui raccolti, seppur scritti in circostanze e per finalità diverse, possiedono un’anima comune di fondo, testimonianza del senso e della direzione complessivi delle ricerche e degli scritti dell’autore. Lucchini, infatti, mira a fornire una ricostruzione dei tratti fondamentali della natura umana al fine dell’articolazione di una ritrasformazione della società che sappia lasciarsi alle spalle le iniquità, le sofferenze, le ingiustizie e le inumanità che contraddistinguono il modo di produzione e auto-riproduzione capitalistico. L’intero itinerario riflessivo di Lucchini parla dunque a tutto tondo di “natura umana”: “natura umana” perché offre una concezione materialistica della “naturalità” della posizione umana nel mondo in quanto centrata sul serrato confronto con le ricerche scientifiche; “natura umana” perché offre una concezione onto-assiologica dell’“umanità” alla quale le modalità di vita in comune devono essere improntate.

Il presente testo, offrendo diverse angolature di questa prospettiva di fondo, rivela dunque un’unità nella differenza e, meglio, una differenza in vista dell’unità e viceversa: questo, a ben vedere, è il nucleo stesso degli studi di Lucchini. In tal senso allora, non sono solo i contenuti di questo scritto a rappresentare sinteticamente il percorso di ricerca dell’autore, ma è anche la stessa struttura dei saggi che lo compongono a mettere in scena il tentativo di cogliere, di quel “prisma multilaterale” che è la natura umana, insieme la dimensione unitaria (tanto onto-assiologicamente universale e per così dire “sovrastorica” quanto materialisticamente universale e dunque “naturalistica”) e quella plurale (legata alla pluralità di manifestazioni storiche, imperfette e non teleologicamente pre-orientate). Attenzione, però: è proprio questo insieme a essere decisivo nella prospettiva di Lucchini.

Infatti, non si tratta tanto di affermare – cosa già di per sé significativa, beninteso – che la natura umana è “una” e allo stesso tempo è anche “plurale”, contrapponendosi così tanto alle prospettive “inessenzialiste” quanto a quelle “essenzialiste”, perché tale “allo stesso tempo anche” non è sufficiente a sciogliere le ambiguità e le aporie che la dicotomia “Uno VS Molti” genera: piuttosto, si tratta di affermare che la natura umana è “una” perché “plurale” e viceversa, ossia che l’unità della natura umana è tale da darsi tramite pluralità, così come questa si dà per esprimere quella. Prima di tornare su questo, è però il caso di delineare una sintetica presentazione dei contributi del presente testo, che permetterà appunto di riarticolare in seguito una “panoramica” conclusiva.

Il primo saggio attraversa il materialismo di Sebastiano Timpanaro, individuando nelle sue considerazioni sull’inconscio freudiano e il lapsus in particolare uno degli snodi decisivi non solo dell’insieme delle sue riflessioni, ma anche della prospettiva materialistica in quanto tale: tale confronto diventa allora certo l’occasione per ricordare che l’agire umano è sottratto a qualsiasi tipo di «indefettibile e automatica realizzazione» senza che ciò ne cancelli però la «profonda valenza assiologica universalistica», ma anche per precisare i caratteri propri dell’ambito scientifico e di quello filosofico. Ciò avviene anche rispetto alla sintesi che Costanzo Preve ha proposto del rapporto tra scienza e filosofia, che secondo Lucchini – pur avendo il merito di ricordare per esempio che quella positivista è una mera ideologia che non rende giustizia alle peculiarità della scienza – tende a operare una ancora eccessiva giustapposizione adialettica: si tratterebbe, invece, di articolare un pensiero che «sappia affrontare di petto, nella loro specificità» le discussioni scientifiche, «chiarendole in rapporto alle finalità onto-assiologiche della filosofia», per potere insieme «aspirare a non disperdere le migliori acquisizioni universalistiche della tradizione filosofica» e però saperle ridefinire e rivalorizzare alla luce dello stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche, certo «approssimate, ma non per questo destituite di qualsiasi oggettività». In altri termini, a essere in gioco non è solo l’apporto che la scienza può offrire per chiarire i presupposti “materialistici” delle possibilità ontologiche umane, né soltanto dall’altra sponda il bisogno di un retroterra filosofico per scovare attraverso la riflessione razionale le posizioni “neoculturaliste” in seno alla scienza, ma anche – forse soprattutto – l’esigenza di chiarire in che senso la scienza rappresenti il terreno di esercizio per i conflitti interni alla riflessione filosofica. Il risultato ultimo di questo dialogo intrecciato – che chiama in causa a più riprese in modo particolare le ricerche di Francesco Ferretti – secondo l’autore può e deve essere l’individuazione di un terreno «largamente condiviso di predisposizioni e facoltà» in grado di «costituire la matrice antropologica di un’universalizzazione razionale autoriflessiva concernente quello che meglio concorre allo sviluppo consapevolmente disalienante degli esseri umani».

Il secondo saggio interviene più direttamente nella discussione circa l’attuale configurazione del capitalismo, per riprendere la “tripartizione” di Preve secondo cui il modo di produzione capitalistico da “astratto” e “dialettico” sarebbe entrato – a partire soprattutto dalla “svolta sessantottina” – in una fase “speculativa”: speculativo è il capitalismo che si rispecchia in se stesso, lasciandosi alle spalle ogni dialettica tra borghesia e proletariato per far spazio all’illimitata, assoluta e auto-referenziale mercantilizzazione di ogni ambito di vita, che ha una chiara manifestazione in quella che non a caso viene anche comunemente descritta come “speculazione economica” (economia finanziaria, cartolarizzazione, crisi del debito ecc.). Due sono però i punti attraverso cui Lucchini riproblematizza l’insieme della prospettiva previana. Innanzitutto, viene rifiutata una lettura del materialismo in termini esclusivamente apologetici rispetto al capitalismo, per la quale il concetto di materia rappresenterebbe un mero momento dell’autoconsapevolezza borghese, legittimando la produzione e lo scambio illimitati proprio tramite il concetto a-sostanziale e anti-trascendente di “materia”: a giudizio di Lucchini, infatti, la negazione della trascendenza tipica del materialismo settecentesco è tutto il contrario della giustificazione della crematistica, rivelandosi piuttosto – nei suoi esponenti migliori – come chiarificazione ontologica dei presupposti “materiali” della virtù e della giustizia e per questo a pieno titolo “antropologico-naturali”. Vale a dire che “materialista” è quella prospettiva che si fa carico di affermare l’esistenza di un «terreno comune di predisposizioni, inclinazioni, facoltà, a partire dal quale problematizzare auto riflessivamente, nelle concrete dinamiche processuali e dialettiche della storia, i diversi modi di vita socialmente definiti», e di chiarirne le forme specifiche. Inoltre, viene esplicitamente tematizzata – tramite soprattutto il confronto con Marino Badiale e Massimo Bontempelli – la questione della “decrescita” e la possibilità che questa possa condurre a un radicale superamento delle dinamiche riproduttive capitalistiche: se le politiche neoliberiste, oltre a condurre una sistematica azione “predatoria” rispetto alle risorse naturali, hanno prodotto e stanno producendo le condizioni per una nuova accumulazione di capitale e per la costituzione di un nuovo esercito industriale di riserva, Lucchini osserva che la risposta dovrà certo passare per l’opposizione agli imperativi della crescita e l’istituzione di una redistribuzione di beni e servizi più che di merci, ma dovrà anche per esempio – seguendo le indicazioni di Piero Bevilacqua – riaffermare la necessità di una riduzione della giornata lavorativa, estendere i servizi pubblici e richiedere la partecipazione dal basso dei cittadini. Eppure, tutto questo secondo l’autore non basta, perché occorre articolare «una più definita prospettiva che affronti di petto» questioni come «la proprietà e il controllo reali dei mezzi di produzione» o «la regolazione collettiva delle risorse, delle attività e dei tempi di lavoro», al fine di indicare rinnovate modalità complessive della normale e quotidiana riproduzione sociale.

Il terzo saggio nasce come confronto con l’umanesimo “classico” (o “classicista”, a seconda dei punti di vista) di Luca Grecchi, del quale vengono accolte le istanze di fondo ma con alcuni significativi “riorientamenti”. Ne viene in prima battuta condivisa la diagnosi impietosamente critica rispetto alle attuali modalità sociali e produttive, che inibiscono il ricco sviluppo delle possibilità ontologiche umane: questo significa non cadere in quelle banalizzazioni che indicano la tecnica come essenza dell’Occidente per ravvisare nel suo dominio la fonte principale della relativizzazione nichilistica che accompagnerebbe le nostre esistenze, bensì evidenziare al contrario che la proliferazione infinita dei mezzi tecnici risponde a finalità produttive ben precise, quelle capitalistiche, le quali riducono la possibilità dell’insorgere di un tessuto comunitario capace di stimolare nei singoli la costruzione di un equilibrio armonico tra tutte le componenti della natura umana. Ne viene però discussa, analogamente a quanto fatto nel primo saggio con Preve, l’eccessiva “foga” anti-riduzionista, che porterebbe Grecchi a rifiutare qualsiasi tentativo di mettere a confronto la prospettiva più strettamente filosofica con gli apporti della ricerca scientifica: è invece necessario – evidenzia Lucchini – «chiarire i presupposti biologico-evolutivi del vario complesso di facoltà cognitive ed emozionali umane interagenti nelle concrete risposte etiche elaborate nella densa problematicità dialettica dei processi storici». Con ciò, non si tratta in alcun modo di andare in direzione di uno “scientismo” che pretenderebbe di individuare il nucleo della processualità naturale umana per poi “applicarlo” all’interpretazione di tutte le questioni etico-sociali umane, quanto piuttosto di riconoscere che è solo a partire da una determinata dotazione biologica, frutto di un’evoluzione in nessun modo teleologicamente indirizzata, che sono possibili l’apertura alla storicità e l’emersione delle “questioni umane”. Insomma, è il dato biologico a costituire il fondamento “materiale” di ogni atto e facoltà umani, ma allo stesso tempo tale “datità” si manifesta e sviluppa mediandosi concretamente nei processi storici, rivelandosi a conti fatti più un dandum che un datum. In questa prospettiva, «non esiste alcuna scissione radicale tra determinatezza materiale-naturale e concreta storicità umana», perché «è solo sul fondamento della prima che la seconda può svolgersi e influire sull’ulteriore vicenda evolutiva della specie», che a sua volta «non può però mai rescindere il suo legame con la processualità naturale» al cui interno ideazioni e azioni umane «possono formarsi e operare».

Pertanto, i tre contributi dell’autore uniscono qui le loro singole voci (rispettivamente portatrici soprattutto, ma come visto non solo, delle questioni del materialismo filosofico-scientifico, del superamento del capitalismo e dell’universalismo filosofico) per dirci in coro che se indubbiamente senza filosofia la scienza è cieca (non problematizza a fondo i propri metodi e procedure e non riflette in senso universalizzante sui propri risultati), non dobbiamo però dimenticare che allo stesso tempo senza scienza la filosofia è vuota (le manca letteralmente il “materiale” su cui esercitare la riflessione e la problematizzazione): la scienza ha bisogno della filosofia per riconoscere le proprie possibili declinazioni ideologiche causa di derive relativistiche e nichilistiche e non dimenticarsi di essere sempre immersa in una determinata totalità sociale; la filosofia ha bisogno della scienza per scongiurare il pericolo di ridursi alla produzione “partenogenetica” di vuote speculazioni fini a se stesse prive di qualsiasi riferimento empirico e concreto e riuscire così a sottrarsi anch’essa a ogni possibile torcitura ideologica.

Come sopra ricordato, al centro di una tale prospettiva sembra esserci non tanto una semplice “compresenza” tra uno e molti, quanto piuttosto un loro ben più profondo – e certo problematico – intreccio: l’unità e la pluralità che caratterizzano la natura umana vanno allora considerate come le due facce di una stessa medaglia. Ossia: tanto la “base materiale” quanto il “sostrato onto-assiologico” non contrappongono la loro “unitarietà” alle manifestazioni storiche, alle modalità sociali, alle diverse realizzazioni umane e così via, perché piuttosto una simile “unitarietà” non trova espressione che tramite tale “pluralità” di forme; allo stesso modo, questa non si contrappone a quella come fosse di fronte a un tentativo di “ingabbiamento” o di riduzione delle proprie molteplici potenzialità, perché anzi si dispiega solo alla luce dell’esigenza di dare a quella piena espressione, di realizzarne cioè una configurazione il più possibile “buona”. Detto altrimenti, tanto la “natura umana” quanto la “natura umana” – nel senso sopra tratteggiato – stanno a indicare che se è vero tanto che non c’è un solo modo di diventare umani (insieme) quanto che è solo tramite i diversi modi che possiamo configurare ed esprimere la nostra natura umana, è però anche vero tanto che non abbiamo modo di stare al mondo se non cercando di diventare pienamente umani (insieme) quanto che non tutti i modi sono allo stesso modo pienamente umani.

È dunque all’interno di queste coordinate che si situa e muove l’approccio di Lucchini, che può essere ancora meglio compreso se si tiene inoltre conto che il riferimento critico va rintracciato, in prima istanza, in un dibattito filosofico troppo spesso snobisticamente “cieco” e “sordo” di fronte ai saperi scientifici (non tanto dunque “al sapere scientifico” singolare e privo di declinazioni e articolazioni, giacché già questa è molto spesso un’astrazione “snob”) anche quando critico rispetto alla totalità sociale, nonché – in seconda istanza – in un certo materialismo marxista (althusseriano soprattutto) che fa della materia il teatro della più assoluta contingenza, e infine – in terza istanza – in un riduzionismo “analitico-scientista” incapace di sganciarsi dalla presunta immediatezza del “puro dato” per re-interrogarlo e soprattutto inserirlo in un orizzonte sintetico di valutazione globale della società.

Come ogni tentativo dotato di una chiara impostazione ermeneutica ed esplicito in merito alle proprie tesi di fondo, l’insieme delle ricerche di Lucchini – dunque nello specifico anche questo testo – possiede indubbiamente “pregi” e “difetti”: se i primi sono in parte già stati e verranno ancora chiamati in causa, tra i secondi il lettore particolarmente critico potrebbe ritenere a tratti “ostico” il linguaggio, notare l’assenza di un diretto confronto con i presupposti teorici del liber(al)ismo (come per esempio – ma non solo – quelli indicati da autori come Milton Friedman, Ludwig von Mises e Murray Rothbard), nonché lamentare un’attenzione per il dato scientifico che a tratti pare farsi tanto eccessiva da incentrare il discorso quasi esclusivamente su testi più a vario titolo scientifici che non filosofici, mettendo così più in secondo piano le questioni strettamente filosofiche (per esempio: quali sono nello specifico i tratti fondamentali della natura umana in senso onto-assiologico ed etico? Cosa significa “vita buona”? In che modo si articola il confronto con le grandi questioni metafisiche come “Essere VS Divenire”, “Temporalità VS Eternità” e via discorrendo?). È però sempre troppo facile imputare a un qualsiasi autore di non scrivere come si vorrebbe che scrivesse o come scrive chi sta leggendo, o di non tener conto di questo o quell’altro tema o addirittura di questo o quell’altro studioso, soprattutto quando si è di fronte a chi propone non tanto una soluzione “analitica” a un dato problema “X”, quanto piuttosto – molto più coraggiosamente e molto più profondamente – una reimpostazione “sintetica” del problema stesso; in questi casi, il primo passo da fare è cercare di comprendere a fondo la peculiarità della sua ottica, ossia: in prima battuta è importante far luce sulle “lenti” che un simile autore (come appunto Lucchini, in questo caso) adotta per leggere la realtà e i fenomeni (sociali, naturali, spirituali ecc.), in seconda battuta occorre focalizzare l’attenzione sugli oggetti che tramite quelle particolari “lenti” un autore osserva ed entrare nelle peculiarità del suo linguaggio, mentre solo in ultima battuta si può iniziare a disquisire di ciò su cui tali lenti non si sarebbero soffermate e così via. Sotto questo rispetto, la dimensione genuinamente e radicalmente filosofica del gesto “sobriamente materialistico” di Lucchini sta proprio nella ri-problematizzazione della questione della natura umana, cioè nel prendere sul serio sino in fondo l’esigenza di porre in maniera nuova il problema della natura umana passando attraverso un rigoroso e costante raffronto tanto con le scienze “dure” quanto con le concrete modalità socio-produttive di vita.

Proprio in questo senso, un’«ontologia sobriamente materialistica» mette in questione tanto il superamento dell’essenzialismo, quanto l’abbandono dell’inessenzialismo, in tutte le loro possibili declinazioni. Da un lato, occorre fare un passo oltre rispetto a chi fa della “natura” (umana, ma non solo) una sostanza metafisica, connotandone così in maniera vaga le caratteristiche “fisicamente” e “organicamente” naturali (biologiche), per magari dipingere tale essenza come un “Paradiso perduto”, regno di perfezione irrecuperabile o al quale cercare ossessivamente di ritornare; occorre però soprattutto evitare quei riduzionismi che – “scientificamente” (Gene), “filosoficamente” (Idea) o “religiosamente” (Dio) – “necessitano” la natura umana presentandola come un’essenza sostanziale che al più va solo realizzata in conformità al dettato te(le)ologico inscritto nella sua struttura (in senso pessimistico o – più spesso – ottimistico). Dall’altro lato, occorre negare con forza ogni tentativo “annichilente” di ridurre a nulla la natura umana, cancellandone le connotazioni biologico-naturali (Storicismo, Sociologismo) e/o negandone le caratteristiche onto-assiologiche fondamentali (Relativismo, Nichilismo), per consegnarla infine al più cieco “casualismo”, all’aleatoria contingenza.

Altrimenti, in un caso resterà inspiegato perché il percorso dell’umanità possa trovare ostacoli e intralci (comprese le attuali forme capitalistiche di vita), nell’altro caso resterà inspiegato perché sia l’umanità (la natura umana) a compiere un percorso verso se stessa. In un caso il mondo è o era “da sé già fatto”, nell’altro caso “se sarà fatto, sarà per puro caso” e forse neanche riusciamo ad accorgercene, perché in fondo ogni mondo va bene allo stesso modo. Insomma, come Lucchini sembra suggerirci, in entrambi i casi resterebbe inspiegata la natura umana – le nostre esistenze, espressione di un indissolubile intreccio di “naturalità” e “storicità”, di “scopo” e “imprevedibilità”, di “idealità” e “concretezza” e così via. Le pagine che leggerete, per concludere, ci esortano allora a non abbandonare la ricerca di una spiegazione, la ricerca di noi stessi, ricordando che non c’è ricerca che non sia – quando genuina e orientata dalla “bussola umana” – al contempo “teorica” e “pratica”.

 

 

 



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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