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Cat.n. 283

Luigi Ruggiu

Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino.

ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170x240 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [80].

In copertina: Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini. Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

indice - presentazione - autore - sintesi

35,00

Introduzione

Il testo che viene qui ristampato è introvabile ormai da molto tempo. Sono stato spesso sollecitato a renderlo nuovamente disponibile agli studiosi. Si tratta dunque di una ristampa riveduta e corretta, con un aggiornamento bibliografico posto in appendice del testo del 1970.

Sono profondamente convinto ancora oggi della validità della interpretazione allora data della trattazione del tempo nel IV libro della Fisica. A questo sono dedicate le prime due parti del testo. La terza parte, quella più teoreticamente orientata, risulta a me oggi la più lontana, anche se ritengo che gli apporti conoscitivi sul ruolo e la presenza del tempo nella considerazione aristotelica dell’ontologia, fornisca preziosi contributi di carattere analitico.

Questa parte è quella che più risente dello stato delle conoscenze di allora. In particolare, manca l’interpretazione per me decisiva di Parmenide, svolta con la pubblicazione di una ampia monografia a quel filosofo dedicata cinque anni dopo (1974-1975). Inoltre, è assente una considerazione più approfondita della Fisica che ho potuto maturare in seguito e i cui risultati sono apparsi successivamente in vari saggi. Solo nel 1990 ho effettuato la traduzione e maturato la convinzione che la Fisica sia essenzialmente ontologia del divenire, la vera novità del discorso aristotelico. Il saggio introduttivo alla nuova edizione di quella traduzione dà conto di tutto questo nelle sue linee essenziali.

A ciò si deve aggiungere infine la ripresa sistematica della considerazione aristotelica del tempo in rapporto ad autori decisivi del pensiero Occidentale, e che si sono tradotti in saggi e volumi, quali Epicuro, Agostino, Tommaso, Hegel, Bergson, Husserl, Heidegger.

Senza contare lo spostamento di carattere teoretico dell’asse filosofico sull’orientamento per me decisivo della «socialità della ragione».

Insomma, oltre alle questioni di stile, troppi punti di distanza per pensare di fare una nuova edizione. Essa avrebbe richiesto necessariamente la riscrittura nel merito dell’intera terza parte, e la ripresa nello stile della prima e seconda parte. Un compito veramente immane per impegno e durata.

Ciò che invece ho sempre mantenuto e a tutt’oggi condivido di quel testo, è la ricostruzione analitica della dottrina aristotelica del tempo, letta attraverso una prospettiva decisamente ontologica. In tale modo essa prende le distanze quindi sia dalla lettura oggettivistica che da quella soggettivistica, nonché dalle prevalenti spinte interpretative di carattere matematico e naturalistico. Questa ultima lettura vede Aristotele in continuità con la fisica come scienza nel senso moderno del termine. Essa è prevalentemente intesa a risolvere il problema fisico-scientifico del ruolo di misura che svolge il tempo, apparentemente caratterizzato, in modo primario, in questo modo fin dalla sua definizione come «numero del movimento secondo l’anteriore-posteriore».

Aspetti di questo tipo sono certamente presenti, ma in un quadro profondamente marcato dal ruolo decisivo assunto dalla particolare considerazione del numero in rapporto con l’attività numerante dell’anima, vera chiave di volta della conoscenza e infine della realtà stessa del tempo. Che è predicato di cose. E quindi non esiste in sé ma è espressione dell’attività di conoscenza dell’anima, punto quindi di incontro, si direbbe oggi, tra soggetto e oggetto, tra la realtà data e la modalità della sua conoscenza, a partire dalla quale e nella quale sorge ciò che noi chiamiamo tempo.

D’altronde, nella prospettiva aristotelica, il tempo fa parte dei principi della physis.

Richiamo brevemente alcuni assunti di fondo. Lo studio della physis svolto nel testo della Fisica ha per Aristotele un carattere fondativo dell’intera scienza dell’essere nel divenire. Si tratta eminentemente di uno studio dei principi che sottendono l’intero orizzonte delineato dall’ente nel suo divenire. Di questo ente è espressione fondamentale quella caratterizzata dalla vita nel senso più alto espresso dalla forma dell’anima razionale. Sotto quest’aspetto, dunque, è del tutto irriducibile alla “fisica” così come essa si è andata delineando almeno da Galilei in poi. Questa scienza tralascia infatti completamente di indagare sui principi. Questi vengono assunti come postulati, e come tali rimangono del tutto al di fuori della considerazione scientifica. Newton aggira del tutto il problema ponendo come base una serie di definizioni e postulati. A proposito della cause ultime dei fenomeni Newton afferma che «i fenomeni della natura ci insegnano che siffatti principi esistono realmente, anche se la loro causa non è stata ancora investigata. Le proprietà di cui parliamo sono dunque manifeste e soltanto le loro cause possono chiamarsi oscure». La scienza così intesa procede, «anche se le cause di tali principi [del movimento] rimanessero a noi sconosciute». Dai fenomeni occorre ricavare i principi generali di movimento, «lasciando invece completamente da parte l’indagine delle loro cause». D’ora in poi sarà questo il modello di scienza.

Certamente, il testo aristotelico è stato anche l’incunabolo per una scienza “fisica”, ma questo ramo si sviluppa sul tronco della considerazione di fondo espressa dai principi, non necessariamente come logico prolungamento e conclusione conseguente di quei principi medesimi. E dunque si tratta di due discorsi differenti, da mantenere distinti. Cosa che quasi mai viene fatto.

Nell’accusa di naturalismo e oggettivismo rivolta allo Stagirita, da critici di diversa impostazione, ruolo centrale assume la polemica di orientamento cristiano fondata sulla contrapposizione tra tempo ciclico e tempo lineare, tra tempo della natura e tempo dell’anima, tra necessitarismo naturalistico e storia. Emblematica in questa direzione è la posizione di Agostino. A questa impostazione non si sottrae lo stesso M. Heidegger, influenzato dall’esperienza proto-cristiana e dalla contrapposizione Lutero-Aristotele.

Un ruolo determinante ha svolto in questo senso l’interpretazione che Heidegger ha dato della concezione aristotelica come espressione del concetto «volgare» di tempo.1 L’Aristotele dunque teorico del senso comune del tempo, del naturalismo, è quello che ha modellato tutte le interpretazioni successive. In questo modo, però, il testo aristotelico diviene il fondamento spurio di tutte le interpretazioni del pensiero occidentale. Con ciò stesso se ne pregiudica la lettura. La concezione aristotelica diviene così fondamento dell’errore.

Questa tesi ha trascinato con sé una cattiva interpretazione del significato della stessa Fisica di Aristotele, fino a formulare l’assioma espresso nel § 82 di Essere e tempo secondo il quale la collocazione del tempo nell’ambito della filosofia della natura ne pregiudica a priori il significato.

La posizione heideggeriana è certamente più complessa e anche contraddittoria. Ridotta ad Aristotele teorico del concetto «volgare» di tempo, esprime invece con ciò stesso il radicale fraintendimento della physis in senso aristotelico. Del tutto irrilevante diviene con ciò stesso la presenza del ruolo dell’anima, relegata e circoscritta quasi ad una estrinseca curiosità nel capitolo finale del IV libro. Ma in questo modo si viene a perdere di vista il fatto che l’anima costituisce il filo conduttore dell’intera analisi in quel testo svolta, dalla delineazione dell’aporetica fino alla formulazione di quella definizione – spesso citata ma altrettanto misconosciuta e scarsamente compresa – del concetto di numero e del tempo come numero, non astratto e numerante, ma concreto come «numero numerato». Sintesi di concreto e atto di numerazione.

La Fisica, come è noto, si pone alla base dell’intera gamma delle opere che trattano della physis, della parte “naturale” della filosofia. Quindi di tutte quelle realtà caratterizzate dall’essere come divenire. La Fisica in questo senso è una scienza dei principi. E quindi anche fondamento delle ricerche dedicate all’anima e ai fenomeni propri di quel vivente – memoria, reminiscenza, attesa e speranza – che è caratterizzato dall’anima razionale, che si esprime nel logos, linguaggio e come linguaggio, cioè nel rapporto con il mondo e con gli altri nella pratica del vivere.

Quindi il tempo, se è vero che è espressione per eccellenza quale principio della physis – di cui è parte essenziale l’anima –, trova una sua espressione fondativa nella fisica, ma non si esaurisce affatto in essa. Esso si prolunga e si esprime in modi diversi a seconda dei contesti in cui l’anima agisce. Non si tratta dell’anima del mondo, come spesso dicono i commentatori neoplatonici, ma di quella forma specifica propria non del vivente in generale, ma dell’uomo in particolare.

Proprio per questo il tempo, espressione primaria di ogni divenire – assieme a spazio, infinito e continuo –, si prolunga necessariamente in tutte le sue opere, quelle naturali, certamente, ma anche quelle che hanno valenza etica, politica, retorica, poetica, con modalità peculiari che debbono essere esaminate in modo specifico. Senza una considerazione di quest’aspetto specifico, la lettura del tempo aristotelico risulta inevitabilmente monca.

Questa seconda arcata della costruzione del tempo ha aperto delle nuove ricerche, non ancora concluse, che hanno avuto una prima espressione in un volume abbastanza recente, che dà conto di questo aspetto del tempo aristotelico quasi completamente trascurato dalla letteratura.2

Il testo del 1970 assume il tempo come centro per una ricostruzione sistematica del pensiero aristotelico nel suo insieme. Ma questo non toglie che esso innanzitutto e soprattutto si presenta come una minuziosa analisi della trattazione del tempo nei capitoli 10-14 della Fisica. Quindi mostra in che modo e con quali esiti il tempo sia presente nei trattati sull’anima3 e in quelli concernenti la metafisica.4 Questa impostazione rende giustizia al ruolo e al peso determinante che la temporalità riveste nell’indagine del pensatore greco.

Questa ricostruzione sta in piedi, a mio parere, indipendentemente dalla particolare interpretazione che il sottotitolo del libro evidenzia: Saggio sulle origini del nichilismo. Tale impostazione è fortemente condizionata dalle tesi proposte da Emanuele Severino con il saggio Ritornare a Parmenide.5 E tuttavia, chi legge con attenzione la prefazione a questo volume fatta da Severino, non può fare a meno di rilevare la distanza che intercorre tra le tesi severiniane e l’interpretazione presente in questo volume su due punti fondamentali: il senso trascendentale dell’ente aristotelico e il significato del principio di non contraddizione. Sul primo versante il mio testo sottolinea l’irriducibile distanza tra l’essere che è nel tempo e l’essere eterno. Distanza apparentemente non colmabile, in quanto l’essere risulta scisso al proprio interno in modo irrimediabile. Proprio per questo carattere “circoscritto” dell’essere aristotelico, il principio di non contraddizione viene da me visto come eminentemente principio dell’esperienza. Da queste premesse ne deriva conseguentemente l’impossibilità per Aristotele di costituire una scienza unitaria della totalità.

Si è trattato di una rigorizzazione “necessaria” della tesi di fondo di Severino? Oppure di una deviazione non voluta e non saputa dalla linea maestra? Personalmente, la ritengo una conseguenza necessaria. Se cade questa, allora deve essere messa in questione la tesi di fondo, cioè il senso del nichilismo. E Aristotele su questo versante deve essere interpretato diversamente,6 non sulla scorta della dialettica tra essere-nulla-divenire, letti nel senso di un Parmenide costruito da Platone, ma in senso autenticamente aristotelico. Di quell’Aristotele che in modo programmatico proprio nella Fisica dice di rifiutare di considerare il divenire in termini di essere e nulla (Phys., I, 191 b 10-29). Aristotele rigetta un’indagine orientata esclusivamente sulla contrapposizione tra essere e non essere. Sia l’uno che l’altro significato hanno carattere polivoco. Il divenire può essere ricondotto in questo modo ad uno dei sensi dell’essere. «Mentre invece noi affermiamo che per il qualcosa “generarsi da ciò che è” o “da ciò che non è” […] non differisce in niente ad esempio dall’espressione “il medico che fa o subisce qualcosa” o “diviene qualcosa”, a partire dall’essere medico».

Il nulla è solo privazione e potenza. E perciò il divenire è letto come «atto di una potenza in quanto tale». E dunque dell’essere come divenire, del divenire come originario. È questo il senso hegeliano del nulla.

Inoltre, qual è il Parmenide al quale si dovrebbe tornare? E ancora quello delineato e costruito in modo metafisico da Platone e dallo stesso Aristotele, l’autore negatore del mondo dell’esperienza e assertore di un essere solitario e trascendente, uno e immobile, eterno e immutabile?

Il progredire della mia ricerca ha reso parziali, superati o addirittura del tutto obsoleti alcuni giudizi espressi allora su Parmenide, che ha costituito e costituisce ancora oggi in gran parte della critica disattenta e corriva la negazione della fisica e del tempo in particolare. Nel 1975 ho pubblicato un testo che ritengo, senza falsa modestia, abbia rinnovato profondamente i parametri di lettura di Parmenide. Egli non si rifugia in un essere eterno, uno e immobile. Non nega il mondo dell’apparire (doxa), ma al contrario riconduce alla verità il mondo. Perciò stesso affermandone la indubitabile realtà. Ma v’è mondo solo in quanto v’è il suo essere nel tempo e nel divenire: un certo modo di essere del tempo e del divenire. Non certo quello considerato dai mortali che nulla sanno.

La verità dell’essere è tale solo in quanto pone insieme l’essere del mondo. E quindi l’essere del tempo.

Questo mi ha costretto ha ridefinire il senso che il tempo riveste nell’essere parmenideo e quindi il significato dello stesso essere e dell’aletheia. A partire dal ripensamento del significato che il νῦν assume nel frammento 8, verso 5 di Parmenide: l’ora è per essenza espressione insieme di tempo, in qualità di medio tra passato e futuro, ma anche di realtà fuori del tempo, di eterno.7 Ritornare a Parmenide oggi per me significa ancorare il tempo e il mondo all’essere, ma anche l’essere al tempo. Un Parmenide così interpretato sulla base dei testi, oltre e contro la stessa ricostruzione aristotelica, consente di rendere maggiore giustizia all’Aristotele metafisico, contro se stesso.8 Dunque, occorre oggi ridefinire il profilo tematico del Parmenide che costituisce la direzione e l’esito del nostro “ritorno”.

Questo presupposto interpretativo fondato su un Parmenide immaginario influisce e determina la lettura che allora ho fatto del tempo in Aristotele?

Sono ancora oggi convinto che queste tesi non abbiano influito minimamente sulla lettura e interpretazione del tempo aristotelico. Mi sono allora prefisso di leggere il testo iuxta propria principia. Assumendo in pieno il significato e l’andamento della ricerca come si dipana nel IV libro. A partire dalla delineazione dell’aporetica, che sorge dalla considerazione del tempo proprio dell’esperienza comune, che pensa rozzamente in termini di essere e di non essere. Approccio che secondo Aristotele occorre rifiutare e superare.

Questa lettura priva di presupposti mi è stata sempre riconosciuta, anche dai critici più severi delle tesi esposte nella terza parte del volume.

A proposito dell’analisi della concezione del tempo, E. Berti in una lunga e articolata recensione critica del mio volume, contro la mia lettura dell’Aristotele metafisico sulla scorta della tesi del suo nichilismo, a difesa della propria interpretazione, osserva tuttavia a proposito della parte dedicata all’analisi del tempo:

 

«Questo tema occupa le prime due parti dell’opera, intitolate rispettivamente La concezione del tempo e dell’istante e Coscienza e autocoscienza in rapporto al tempo. Esse sono probabilmente destinate a costituire il titolo maggiore di Ruggiu agli occhi degli studiosi di Aristotele, desiderosi di penetrare l’effettivo pensiero del filosofo, indipendentemente da valutazioni teoretiche ad esso più o meno estrinseche. A tale penetrazione infatti Ruggiu offre indubbiamente un contributo rilevante, forse anche in virtù di un pressoché totale consenso con la dottrina aristotelica del tempo, della quale egli apprezza la formulazione in actu signato, mentre rifiuta, in quanto responsabile del nichilismo, soltanto l’uso in actu exercito».9

Questo medesimo giudizio, espresso talvolta solo a voce da molti autorevoli studiosi, lo ritroviamo in un testo critico che esce a venticinque anni di distanza dalla pubblicazione del volume, nel 1995.10 La stessa ripresa dopo un tale intervallo testimonia della rilevanza del significato complessivo del presente volume, la validità e l’interesse suscitato da quella mia ricostruzione.

«La parte del testo relativa alla trattazione del tempo si presenta come lo svolgimento sistematico più profondo ed articolato della tesi per cui il tempo viene costituito dall’anima attraverso l’atto di numerazione che esercita in rapporto al divenire, ed è quindi necessariamente relato ad essa.

 Questa grande sintesi operata da Ruggiu, che ricomprende tutti i contributi precedenti sulla definizione del tempo secondo Aristotele costituisce, sia per il rigore dell’argomentare che per la consistenza dell’impianto teoretico che assume come presupposto un confronto critico indispensabile per ogni interpretazione che da essa si differenzia; in questo senso rappresenta, insieme al testo di Conen, l’interpretazione attuale più interessante della dottrina aristotelica del tempo».

E per la verità quella ricostruzione sta alla base di molte interpretazioni, anche quando manca un esplicito riconoscimento del debito, secondo malcostume.

Gli esiti della mia ricerca sono oggi superati? L’aggiornamento bibliografico posto in appendice dà conto di quanto è stato scritto successivamente all’uscita allora del mio volume, con attenzioni e prospettive diverse, che tuttavia non intaccano la ricostruzione che di questo specifico argomento e del suo significato il volume presenta.

La bibliografia dà inoltre conto del fatto che quella ricostruzione ha costituito il filo della mia lettura del tempo nel pensiero occidentale. In senso diverso da quanto afferma Heidegger, il tempo aristotelico ha condizionato nella sua impostazione e spesso anche negli esiti l’esposizione di quanti nei secoli si sono cimentati con questo tema, si tratti di Epicuro, di Plotino e di Agostino, o di Tommaso: dunque lungo il filone di stampo platonico o in quello più specificamente aristotelico. Fino alla presenza in forma davvero massiccia nella esposizione hegeliana della temporalità, a partire dai testi di Jena,11 e infine in quelli di Berlino. In modo del tutto ingeneroso ma icastico questo influsso critico veniva definito da Heidegger come una vera e propria «parafrasi» del testo del IV libro della Fisica di Aristotele. In realtà l’impostazione dell’aporetica e quindi del tema dell’istante e in generale di chronos consente una nuova visione che dà ragione della stessa dialettica che ingloba e incorpora Aristotele nell’idealismo hegeliano.12

Una presenza che si fa valere poi in tutte le successive opere, dalla Fenomenologia, alla Logica,13 alla Enciclopedia delle scienze filosofiche, fino alla posizione dello Spirito come tempo.14 Ma quella presenza si impone ancora in Bergson, in Husserl e massicciamente in Heidegger.

L’attualità di un testo come quello qui riedito si riconosce dalla centralità del tema, dalla novità nell’impostazione, dalla fecondità dei risultati, non solo per la conoscenza storica dell’autore, Aristotele, ma per la sua capacità di interloquire con i problemi di metodo e di merito anche sul versante non direttamente filosofico della scienza, in particolare della fisica moderna e contemporanea.15

Nella contemporaneità, a lungo questa problematica è parsa monopolio della fisica, con le sue esplorazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo e della fisica dei quanti, dove il tempo con i suoi caratteri di irreversibilità e di ekstaticità scompare. A mano a mano che questa scienza progrediva nella ricerca, il tempo così come noi lo conosciamo nella esperienza comune e nella riflessione filosofica pare doversi del tutto annullare assieme alla nostra esperienza del tempo, votata ad essere concepita come niente più che un’illusione. Malgrado l’oggettività e assolutezza che il tempo assume nella fisica newtoniana, esso risulta essere privo di irreversibilità nel suo andamento, cioè del tutto simmetrico, privo cioè di quella componente del passare e del finire, che caratterizza il senso del nostro vivere e del nostro rapportarci alla vita dell’universo. Fino a concludere che il tempo è nulla16, il prodotto di una semplice illusione, come ebbe a dire Einstein in una celebre lettera inviata ai familiari del suo amico Besso: «Per tutti coloro che credono nella fisica, la divisione tra presente, passato e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione».

Questa collocazione del tempo sul piano della illusione portava, a detta di K. Popper, Einstein sul terreno di Parmenide, interpretato come il negatore del tempo per antonomasia.

Tutto questo ha spinto una parte consistente della fisica contemporanea all’affermazione che il tempo non esiste. Un’affermazione posta in modo apodittico, al di là e oltre l’ambito della fisica stessa. Come se essa fosse assolutamente uguale a una teoria del tutto. Una scienza della totalità, dunque. E quindi sostanzialmente a rendere del tutto inconciliabili non solo le scienze tra di loro, ovvero tra quelle che si fondano sul divenire e sul tempo come la biologia, ma anche tutte le scienze dell’uomo, e soprattutto a scavare un fossato del tutto invalicabile tra la scienza e la vita, tra la filosofia e la scienza.

Questo stato equivoco ha portato spesso alla spuria convergenza tra fisica e parmenidismo, sebbene i due approcci abbiano poco o nulla in comune.17

Oggi tuttavia assistiamo ad un ribaltamento di queste tesi. Non al fatto che la fisica delle particelle e dei quanti non abbia a che fare con il tempo, ma al fatto che la fisica come scienza della totalità è una pretesa imperialistica, non scientifica. Le nuove tendenze della fisica, infatti, in modo sempre più massiccio, tendono ad una riabilitazione del tempo:18 il tempo esiste, come recitano i titoli dei nuovi volumi.

Anzi, come dice L. Smolin: «Il tempo rinasce dalla relatività». E se nella precedente prospettiva colui che per primo e in modo approfondito ha analizzato il tempo nella sua complessità, Aristotele, pareva essere il teorico del senso comune, della opinione senza fondamento, un sistematizzatore del senso volgare pieno di fantasie e pregiudizi – come affermava T. Khun –,19 oggi un già teorico della fine del tempo può dire: «La sintesi fra il tempo di Aristotele e quello di Newton è il gioiello dei pensieri di Einstein».20 Anche se l’attribuzione di questa ripresa di Aristotele in Einstein mi sembra molto azzardata, occorre prendere atto che lo Stagirita rappresenta una componente ineliminabile della nostra esperienza, che pure è parte della realtà, che occorre portare a sintesi con la fisica moderna per comprendere lo sviluppo della fisica contemporanea. E lo stesso Rovelli, nel suo recente volume su L’ordine del tempo, dopo aver trattato nella prima parte del «mondo senza tempo della fisica elementare», dedica tutta la terza parte a parlare delle «sorgenti del tempo»; giacché, se al livello più fondamentale «non c’è variabile tempo» e quindi non esiste differenza tra passato e futuro, esiste anche un movimento di ritorno (Nostos!) per comprendere come da questo mondo senza tempo possa emergere il tempo a noi familiare. Alla nostra scala, esiste anche la variabile tempo. Fino a concludere, con una espressione alla Borges, che «il tempo siamo noi».

Ma quale Aristotele e soprattutto: quale tempo? Certo non quello fossilizzato sul tema della misura: «chiamiamo tempo la misura, la contabilità di questo cambiare». Si tratta, come si vede, di una tesi di carattere prevalentemente epistemologico, di una interpretazione matematica, che nella mia ricostruzione è fortemente criticata. Essa infatti esprime soprattutto la confusione tra tempo e misura del tempo sulla base della rotazione della sfera celeste.

Resta tuttavia vero che il tempo «è il nostro situarci» per localizzarci rispetto al cambiare delle cose, rispetto al conto dei giorni. Ma il conto dei giorni è l’espressione della nostra stessa vita che è durare nel tempo. In questo senso, Newton e il tempo assoluto – e neppure Einstein, accanto e oltre al tempo relativo –, non è sufficiente. Non spiega infatti la nostra esperienza di vita. Non si può liquidare il tempo come illusione, senza spiegare la presenza e la realtà di quella stessa illusione, come avverte ancora Aristotele in un celeberrimo passo della Fisica dedicato ai negatori del divenire.

E dunque di nuovo oggi assistiamo ad una ripresa e attualità della concezione aristotelica del tempo. Di quale tempo si tratti, quel volume scritto allora dà pienamente conto. Perciò oggi viene qui riproposto: in quanto è attuale.

Luigi Ruggiu

Ottobre 2017

1 Si tratta del famoso § 82 di M. Heidegger, Essere e tempo, tr. di P. Chiodi, Milano 1953.

2 L. Ruggiu, Tempo della fisica e tempo dell’uomo. Parmenide Aristotele Agostino, Cafoscarina, Venezia 2007.

3 L. Ruggiu, Anima e tempo in Aristotele, in Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 37-62; L. Ruggiu, Tempo e anima in Agostino, in Agostino e il destino dell’Occidente, a c. L. Perissinotto, Carocci, Roma 2000, pp. 79-118.

4 L. Ruggiu, Rapporti fra la Metafisica e la Fisica di Aristotele, «Rivista di filosofia Neoscolastica», 1-3 (1993), pp. 242-297.

5E. Severino, Ritornare a Parmenide, « Rivista di Filosofia Neoscolastica», 1964, fasc. II, pp. 137-175.

6 Su questo aspetto ho avuto modo di tornare nella Prefazione alla seconda edizione di Aristotele, Fisica. Nuova edizione testo greco a fronte a cura di L. Ruggiu, Mimesis, Milano 2007, pp. VII-LXVI, trattando della «fisica come ontologia del divenire», parlando del divenire come essere e riprendendo l’analisi del significato del non essere in Aristotele. Il divenire non si può comprendere «facendo riferimento al non essere e al nulla» (ib., p. XLIII). In questa direzione ho sviluppato quanto già emerge nel testo di allora, la considerazione aristotelica del divenire come essere e quindi la presa di distanza da quella particolare interpretazione di Parmenide che lo stesso Aristotele, sulla scia di Platone, hanno costruito.

7 L. Ruggiu, Parmenide e il tempo, in Parmenide. Nostos, L’essere e gli enti (edizione rivista e ampliata, con testo e traduzione dei frammenti, e con un saggio), Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 455-512.

8 Questa lettura è espressa nella prefazione alla seconda edizione della Fisica già citata.

9 E. Berti, Una recente indagine sul rapporto tra essere e tempo in Aristotele, «Rivista di filosofia neoscolastica», fasc, I-II, 1971, pp. 152-163.

10 A. Giordani, Tempo e struttura dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 235-236

11 L. Ruggiu, La logica jenese di Hegel e il problema del tempo, in Il pensiero di Hegel nell’età della globalizzazione. Atti del congresso internazionale, Urbino 3-5 giugno 2010, a cura di G. Rinaldi e T. Rossi Leidi, Aracne, Roma 2012, pp. 101-162.

12 L. Ruggiu, Il tempo nella Fenomenologia dello Spirito, in La Fenomenologia dello spirito dopo duecento anni, a cura di G. Cotroneo, G. Funari Luvarà, F. Rizzo, Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 311-366,

13 L. Ruggiu, Logica e tempo, in «Giornale di Metafisica»,», 3, 2012.

14 L. Ruggiu, Tempo e concetto in Hegel, in L. Ruggiu (a cura), Filosofia del tempo, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 145-161; L. Ruggiu, Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano 2013.

15 Si veda ad esempio quanto diciamo in L. Ruggiu, Tempo: «un’ostinata illusione»? Note per un’introduzione alla questione del tempo, in Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 9-26; e, più in generale, nel saggio: Tempo delle scienze, tempo della filosofia, in Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia, a cura di U. Curi, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 101-135.

16 J. Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino 2003.

17 K.R. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, a cura di A.F. Petersen, con l’assistenza di J. Mejer; ed. it. a cura e con una prefazione di F. Minazzi, Casale Monferrato 1998.

18 Cfr. D. Falk, In Search of Time. The History, Physics and Philosophy of Time, St Martin’s, New York 2010; L. Smolin, Time Reborn. From the Crisis in Physics to the Future of the Universe, 2013 (tr. it. La rinascita del tempo. Dalla crisi della fisica al futuro dell’universo, Eiunaudi, Torino 2014 ).

19 T.S. Khun, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Einaudi, Torino 1972, cap. 3.

20 C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017, p. 68.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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