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Cat.n. 308

Marino Gentile

Umanesimo e tecnica. Tutto ritorna all’uomo. Introduzione di Mario Quaranta.

ISBN 978-88-7588-208-2, 2018, pp. 208, formato 140x210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [85]

In copertina: Auguste Rodin, La Mano di Dio, 1896. Musée Rodin, Parigi.

indice - presentazione - autore - sintesi

20,00

Introduzione di Mario Quaranta

Alla ricerca dell’umanesimo

È singolare che Marino Gentile, nell’Avvertenza alla sua opera Umanesimo e tecnica,1 esprima una certa insoddisfazione sull’im­postazione scelta e sul criterio adottato nel confrontare i caratteri dell’umanesimo con quelli della tecnica, tanto da indicare al lettore un possibile, efficace “itinerario”alternativo per comprenderne le idee guida. «Terminato il libro – afferma – mi accorgo che con poche modificazioni potrei renderlo più schematico e più chiaro»2 (da ciò nascono quelle “postille autografe” di cui parleremo più oltre). Egli pensa che il «tono conversativo» dell’esposizione possa «dissimulare la riflessione scientifica, fino al punto di farla pensare assente»,3 e assicura il lettore che «dietro ogni osservazione, e spesso dietro a ogni parola, c’è un ampio lavorio preparatorio di osservazione e di critica, altrui e mia», lavorio di cui la nota bibliografica «dà soltanto le indicazioni più importanti».4 Questa opera ha aperto, fra gli studiosi, il problema dei rapporti con gli altri scritti pubblicati e comunque elaborati da Gentile all’inizio degli anni Quaranta; la risposta più persuasiva, a mio parere, è quella espressa da Giulio F. Pagallo nel lungo saggio Il significato di “Umanesimo e Tecnica” (1943) nella formazione filosofica di Marino Gentile.5 Nel momento in cui Gentile pubblica quest’opera ha già tracciato le linee fondamentali del suo orientamento nei saggi La problematicità pura, L’umanesimo moderno e l’Institutio. Sommario storico di filosofia dell’educazione, tutti pubblicati nel 1942; i primi due sono stati inseriti nella sua opera maggiore, Filosofia e umanesimo, 1947 (nel 1948 pubblica il testo breve: Che cos’è il sapere. Introduzione umanistica alla filosofa). Questi tre lavori, afferma Pagallo, «compongono un trittico organico e coerente, all’interno del quale la plausibilità di ciascuno dei componenti, trae giovamento dal rapporto che mantiene con gli altri due».6 Le due idee-guida fondamentali presenti nei testi citati (in particolare nel primo) accolte nello sfondo di quest’opera sono: da un lato l’idea della filosofia come ricerca pura, ossia senza presupposti, e dall’altro, la considerazione dell’esperienza come costitutivamente problematica («problematicità pura»). In altri termini, i due risultati originari più importanti, dal punto di vista teoretico, del primo testo del 1942, riguardano la natura e il modo di procedere che caratterizza il sapere filosofico. Gentile individua una struttura argomentativa speciale per la filosofia, diversa da quella che caratterizza la conoscenza scientifica. La dimostrazione filosofica non può, in alcun modo, avere quella struttura ipotetico-dimostrativa che caratterizza, invece, il modo di argomentare delle scienze, dato che il sapere filosofico si costituisce originariamente come ricerca e non possesso di principi, in ciò consiste la «problematicità pura» dell’indagine filosofica. In altri termini, la filosofia non può, in nessun caso, muovere dall’assunzione iniziale di certezze e verità (anche se ipotetiche) che valgano come principi; la dimostrazione filosofica si presenta, pertanto, come procedimento ‘anipotetico’ e ‘dialettico’. Questa posizione, ulteriormente precisata e approfondita, costituisce un leitmotiv del pensiero di Gentile.7

Fin dall’Avvertenza, Gentile indica l’obiettivo della sua ricerca: «interrogare la coscienza propria e altrui intorno al senso profondo che, tra i molti possibili, acquistano per essa umanesimo e tecnica e la loro relazione reciproca».8 E ciò allo scopo di giungere, attraverso un’analisi storica e filosofica a «stabilire dei rapporti mutui e giungere soltanto alla fine a una loro netta definizione».9 Per la comprensione delle tesi via via enunciate e sviluppate, seguiremo l’itinerario dato da Gentile, che ha scandito l’opera in quattro sezioni: Problema, Alla ricerca dell’umanesimo, Alla ricerca della tecnica, Alla ricerca di una sintesi. Il punto di avvio, il “problema”, è se possiamo stabilire dei rapporti tra i due termini, dal momento che sono entrambi intrecciati nelle sfere del fare e del conoscere, e con ciò «vanno oltre i limiti dell’intelligenza e dello studio, movendo dal profondo forze economiche e morali della società e formando il dramma della civiltà attuale».10 Bisogna peraltro riconoscere che nella cultura odierna si avverte un’esaltazione esclusiva dei «benefizi di un’educazione nettamente professionale e gli svantaggi di una formazione essenzialmente umanistica»;11 ma proprio nelle nazioni in cui è privilegiata una istruzione scientifica e tecnica (il riferimento è alla Germania), si fa ora più insistente la richiesta di una «visione meno strettamente pratica e produttiva della vita».12 Comunque oggi, sottolinea Gentile, si manifesta in Italia un «umanesimo rivoluzionario» che ha trovato la sua codificazione nella sfera etico-politica e educativa nella Carta della scuola elaborata nel 1939 da Giuseppe Bottai, in cui si trova una valutazione nuova dei rapporti tra i fattori culturali tradizionali e una esplicita accettazione delle forme e dei valori dell’attività produttiva «concepita come parte integrante ed espressione essenziale dell’intelligenza, della volontà e di tutt’intera la spiritualità umana».13 Una valutazione, questa, che chiarisce la scelta di Gentile di dedicare l’opera a Bottai, allora ministro dell’Educazione Nazionale, che definì la sua una «riforma radicale»,14 in cui si assegnava un ruolo molto importante al lavoro e in particolare alla scuola media unica, ove si manteneva il latino come base della formazione classico-umanistica.

Il primo capitolo della sezione Alla ricerca dell’umanesimo è Il fondamento speculativo. Idea e senso, che inizia con un’affermazione che è alla base di tutta la ricerca gentiliana: «L’umanesimo non è un’epoca storica, ma una concezione generale dell’uomo, presente in tutte le epoche, con più o meno fortuna».15 Nella prefazione a Institutio ha dichiarato: «Il presente sommario ha nell’umanesimo il principio direttivo ed ispiratore».16 Secondo Gentile, il rapporto tra umanesimo e tecnica si può rintracciare fin dalle origini della civiltà occidentale, espresso nella distinzione fra aretè e techne, ossia fra «l’aristocrazia, la contemplazione, l’unità, e la techne, il popolo, il lavoro, la molteplicità degli interessi e dei bisogni».17 A questo proposito, Gentile precisa la differenza nella Postilla 2: «La rivolta è legata ancora con la posizione contro la quale è dialetticamente insorta, mentre la rivoluzione si caratterizza perché penetra intimamente nella coscienza degli individui e dei popoli e vi scopre quei perenni valori morali e intellettuali in cui si sostanzia l’umanesimo di tutti i tempi».18

Egli individua due periodi in cui l’umanesimo si è più intensamente realizzato: in Grecia, V-IV secolo d.C., in Roma tra la fine della Repubblica e il sorgere dell’Impero, mentre quello dell’umanesimo in senso stretto si sviluppa nei secoli XIV-XV. Egli attribuisce una particolare importanza alle Notti Attiche di Aulo Gellio in cui si equipara l’humanitas alla paideia greca, che è «il motivo centrale e ispiratore di tutta la cultura e della vita greca»,19 affermatosi in un costante confronto con le «zone più oscure della coscienza».20 Come ha evidenziato Werner Jaeger, la paideia non è «un facile dono del tempo e della posizione geografica, bensì la conquista faticosa, continua e combattiva di un ideale superiore di umanità».21 Essa non designa l’educazione in generale, ma una concezione ben determinata del valore e della natura dell’uomo. La vera realtà dell’uomo «sta nell’esercizio teoretico e pratico della ragione», che è «con l’intelligenza e la volontà, il creatore del suo proprio mondo».22 A questo punto Gentile individua un limite nella concezione greca dell’uomo; essa «è sempre un’idea e non è ancora una persona; vuol far vivere la ragione nel senso, ma attende in realtà di prenderne carne ed ossa».23  Sarà la civiltà romana a rivalutare la concretezza dell’uomo nell’ambiente familiare, civico e sociale.

Nel capitolo Il concetto pedagogico: l’eloquenza, Gentile sostiene che l’umanesimo è anche un metodo educativo; nella Postilla 5 precisa che esso «non si restringe alla valutazione etica dell’uomo, ma indica i mezzi più opportuni per raggiungere la pienezza morale»,24 mezzi che Platone ha indicato nella ginnastica, ossia nella «formazione dell’organismo fisico robusto e disciplinato alle direttive della mente»,25 e nella musica, in un significato comprendente l’addestramento nella cultura poetica, storica, morale e scientifica. Anche in questo caso la cultura romana non si è limitata a diffondere quella greca, ma l’ha integrata «alle esigenze proprie dell’organizzazione giuridica e politica».26 Non solo: l’aspetto più caratteristico dell’educazione romana è «l’esercizio della parola viva, cioè l’eloquenza»;27 si può dire riassuntivamente che l’educazione romana è essenzialmente un’educazione oratoria, che ha trovato una sistemazione organica nell’opera di Marco Fabio Quintiliano, il quale ci ha dato il più ampio trattato di pedagogia imperiale, l’Institutio oratoria. L’institutio è l’equivalente romana della paideia, e questo modello romano si è tramandato alle scuole e «alla cultura italiana di tutti i tempi».28

Gentile traccia una breve analisi dell’educazione umanistica nel corso dei secoli, dal Medioevo ai tempi moderni, finendo con ulteriori argomentazioni sul valore tuttora attuale dell’eloquenza come educazione al saper parlare, che non va confuso come spesso si fa, con il saper chiacchierare o col saper conversare. Nella Postilla 9 precisa che «l’educazione delle attitudini espressive è parte integrante dell’umanesimo e ne fa un principio di vita sociale: consente di divenire non servi, ma padroni del mondo. Questo carattere operativo e attivo è proprio del vero umanesimo di tutti i tempi».29

Nel capitolo su Lo strumento didattico. La grammatica Gentile afferma che fra l’umanesimo classico e quello storico (degli umanisti) c’è stata una progressiva degenerazione del principio di «imitazione»; esso passò da una concezione dinamica a una statica, «e si venne cristallizzando nella riproduzione o nella variazione delle migliori espressioni anteriori».30 In questo modo l’umanesimo degli umanisti «decadde da umanesimo a tecnica, da stimolazione dell’uomo integrale ad addestramento del professionista delle lettere».31 Ora l’umanesimo si trova di fronte a un problema nuovo e di enorme importanza storica e teorica, ossia al nodo dei rapporti con il cristianesimo. Per il cristiano, l’umanesimo è doppiamente insufficiente: mira a realizzare un’armonia naturale dell’uomo e non tiene conto dell’offesa recata dal peccato originale, e secondariamente non completa la formazione spirituale e naturale con la fede e la grazia sovrannaturale.

L’uomo dell’umanesimo è perciò doppiamente incompiuto per il cristiano, «anzitutto perché è una meta ideale priva, almeno nella forma più piena, della realtà dell’esistenza, poi perché gli manca lo slancio e il calore di chi non si appaga dei propri limiti umani».32 In conclusione, il cristiano può accettare l’umanesimo come «strumento della propria perfezione», ma in ogni caso lo subordina «alla destinazione soprannaturale».33 Nell’opera Institutio, Gentile argomenta più compiutamente questa posizione, che è fondamentale nell’economia di Umanesimo e tecnica: «I banditori del Cristianesimo dovettero lottare, specialmente là dove prevaleva la cultura greca, contro la persuasione che il male non scaturisse dalla coscienza, bensì dalla fatale condizione, la quale porta la natura a dividere l’essere unico nelle singole cose. [...] Per il cristianesimo invece la colpa di origine è il peccato di superbia, con il quale Adamo liberamente trasgredì l’ordine dato da Dio e soggiacque alla tentazione di pareggiarsi a Dio stesso, peccato da lui trasmesso ereditariamente, insieme con la vita, a tutti i suoi discendenti».34 Un ulteriore limite dell’umanesimo nei confronti del cristianesimo è espresso nella Postilla 21: «L’umanesimo classico non ha intesa la grandezza etica della fatica necessaria per guadagnarsi il pane. Questa verità è stata rivelata, in forma rivoluzionaria, soltanto dal cristianesimo. Ora si attua? Questo principio cristiano con una decisione politica sinora ignorata».35

Quale ruolo è affidato alla grammatica e al suo utilizzo nella scuola, tenendo conto di quanto si è fin qui detto? È indubbio che la paideia greca e l’institutio romana compiano uno studio approfondito dell’espressione, e l’esame dei procedimenti espressivi «li portò a dare rilievo più esclusivamente formale alla grammatica come studio di ricostruire logicamente il processo formativo della lingua». Da allora «la grammatica è l’esercizio comune dei ragazzi di tutti i paesi civili dell’Europa e del mondo».36 Tutto ciò perché la grammatica è uno strumento indispensabile per la formazione dell’uomo: si tratta di riscattare il suo significato intellettuale: dominio e cura dell’espressione, e infine della sensibilità e dell’intelligenza.

Alla ricerca della tecnica

Gentile va ora Alla ricerca della tecnica, e il primo argomento che affronta è La difficoltà di un giudizio: la suggestione delle nostalgie. Egli compie, in questo e altri capitoli un’analisi sociologica dettagliata e acuta della situazione del lavoro, dell’attività degli operai nella fabbrica, utilizzando i lavori di alcuni sociologi come De Man, Friedmann, Ford, Dessauer. Egli rileva in prima istanza che la «realtà della tecnica, dunque, è formata dalla limpidezza delle astrazioni, ma il nome è presente nella coscienza dei più col tumulto delle passioni» che scaturiscono «da un’inappagata aspirazione di giustizia e di gioia»,37 giungendo fino al quadro fosco «in cui centinaia e migliaia di formiche umane celebrano il sacrificio della propria vita alla divinità anonima dell’organizzazione industriale».38 Egli rileva l’esistenza di «due sentimenti di nostalgia: l’uno rivolto al passato, l’altro proteso all’avvenire».39 Il primo è di chi rievoca il tempo anteriore al dispotismo industriale, l’altro anima la lotta di classe dei lavoratori, nell’«attesa messianica del sole dell’avvenire».40 In una descrizione puntuale della differenza fra il ruolo dell’operaio nel mondo dell’industria e della tecnica, e quello dell’artigiano e dell’agricoltore, sottolinea che le condizioni dell’operaio, pur difficili e fisicamente debilitanti, sono di un livello sociale e umano superiori. È vero che di fronte a un artigiano che modella un oggetto costruito con le sue mani, l’operaio, invece, è «condannato tutta la vita a ripetere un’operazione per sé inconcludente, è come uno schiavo della materia di fronte a un signore della creazione»;41 ma se si esamina più compiutamente il lavoro dell’operaio, si deve constatare che «è impetuosa l’evasione dei rurali verso i centri urbani e verso l’occupazione industriale», evidentemente per le migliori condizioni di vita che vi trovano.

D’altra parte, la nostalgia dell’avvenire nasconde una realtà essenziale: l’insofferenza dell’operaio che nasce più che da un rifiuto dell’organizzazione industriale e tecnica, da una inquietudine sociale, diffusa dalla propaganda socialista, sindacale e politica, di chi si ritiene ingiustamente allontanato da funzioni di comando e di preminenza. Il socialismo ha ispirato convinzioni individualistiche, mutuate dalla rivoluzione borghese; una rivoluzione che ha diffuso nella società il disprezzo della gerarchia, non considerando che l’opposizione contro l’autorità politica avrebbe travolto anche quella sociale e politica. «Dalla borghesia la ribellione contro il principio gerarchico è passata al popolo»,42 accentuando il desiderio di una «società irreale, che si regga senza la costrizione delle leggi e scaturisca dal libero accordo delle inclinazioni individuali».43

Gentile affronta poi il problema della Trasformazione del lavoro. La macchina, soffermandosi sul problema fra i più discussi e variamente risolti, ossia le «colpe della tecnica contro l’umanità del lavoro».44 Nell’accusa contro la tecnica, si fa valere, di solito, ciò che essa avrebbe di negativo in senso specifico, comparata con il lavoro artigianale. La tecnica ha indubbiamente «specificato e resi universali i singoli atti» di chi lavora, con almeno due vantaggi: «L’enorme risparmio delle energie muscolari e il gradito senso di superiorità e di dominio che dà il rendimento della macchina».45 Ma, come abbiamo accennato, la ripetizione nel lavoro non spegne il gusto della novità e dell’iniziativa? Per Gentile questa domanda è una tipica proiezione ‘borghese’ sull’operaio della coscienza intellettuale e del professionista della cultura; entro certi limiti «il ritmo monotono del lavoro è grato a molti operai, perché consente loro, entro certi limiti, di evadere con la mente dalla stretta cerchia dei lavoro»,46 e nella Postilla 13 precisa: «Sullo stesso lavoro "a catena" v. le realistiche considerazioni del Friedmann».47 Non solo; ci sono rilievi più gravi: l’operaio si ribella moralmente contro la disciplina che lo soggioga in modo assorbente al proprio lavoro, troppo a lungo e con remunerazione inadeguata; è evidente che l’operaio «non vive per lavorare ma lavora per vivere»,48 egli sa benissimo che il lavoro è un peso «dolorosamente imposto dalla necessità del sostentamento»,49 perciò lo accetta perché gli procura un guadagno. La tecnica può comunque attenuare il peso della fatica «sostituendo alla prestazione umana quella meccanica».50 Altra protesta e ragione di malcontento, è che l’operaio avverte il progresso tecnico e l’instaurazione di nuove e più perfezionate macchine, come fattori che mettono in gioco il suo lavoro e aumentano la disoccupazione. Un problema, questo, che può essere risolto, nel senso che la disoccupazione è temporanea, ed «è compensata ad abbondanza dall’incremento ulteriore del consumo»51 dovuto alla diminuzione dei prezzi.

Gentile si pone, infine, una domanda decisiva: «C’è, dunque, nella tecnica un principio che, nell’atto stesso d’innalzare la dignità del lavoro, fa sentire più duramente ch’esso è un peso e un’umiliazione?».52 È la «nostalgia dell’avvenire», che sembra «intrinseca ed essenziale allo spirito della tecnica moderna»;53 l’operaio, dichiara Gentile, comprende che «al suo interesse individuale è intimamente congiunta la rivoluzione totale della società in cui lavora»;54 a tale proposito egli coglie la differenza fondamentale che sussiste con la produzione rurale: mentre nella produzione rurale la tecnica si presenta come «arte di usare con intelligenza le energie naturali», nel lavoro industriale la tecnica diviene «principio universale di azione e di realtà».55 In conclusione, l’operaio giunge a comprendere che «il lavoro a cui partecipa, è una gigantesca affermazione di dominio e di assolutezza da parte di un potere costruttivo, che è poi il suo, e domanda di avere nel godimento di questa superba creazione umana la parte che ha avuto nella fatica, e quella che crede di aver avuto nel prodotto».56

La successiva tappa dell’indagine riguarda L’espansione sociale e politica. La burocrazia. La tesi di Gentile è che «la burocrazia è parte integrante della tecnica [...] e, come la tecnica, è aperta a prospettive infinite di accrescimento e sviluppo»,57 pertanto assistiamo a un collegamento, che giunge fino all’identificazione, fra potere politico (burocrazia) e sapere scientifico (tecnica), caratterizzate da una comune idea direttiva, la «fiducia nelle capacità illimitate della ragione»: «Tecnica e burocrazia hanno in comune la patria e la data di nascita: è la Francia del Seicento, cioè di Cartesio». 58

Gentile ritiene che il campo privilegiato di osservazione sulla burocrazia e sulla tecnica sia l’America, e il suo teorico più eminente sia Ford, il quale «pur rimanendo nell’ambito della mentalità tecnica, ha scorto lucidamente come dal suo interno sorga un’esigenza d’integrazione».59 A questo punto, la disamina del problema è sostanzialmente incentrata sulla concezione della produzione e dell’operaio in Ford, di cui si sottolinea in particolare la superiorità; infatti, l’operaio fordiano lavora sei ore e poi può dedicarsi ad attività ludiche, in famiglia, ecc. Dopo l’esaltazione della posizione di Ford sul lavoro e la tecnica, Gentile si sofferma su La potenza dell’analisi razionale. Paragone con la filologia, sostenendo che il principio comune che regge la tecnica e la burocrazia è la ragione, «ma è volto essenzialmente all’esteriorità; perché vuol rendere esteriore la ragione stessa».60 Ciò significa che l’uomo tende sì alla conquista della realtà ma si converte in essa, e con ciò allarga le maglie dei suoi rapporti sociali moltiplicando «i vincoli di subordinazione del singolo con la collettività».61 Mi sembra che la categoria dell’esteriorità possa essere paragonata, per certi aspetti, alla nozione di “estraniazione” o oggettività alienata, con cui conducono le loro analisi, oltre a Marx, Adorno e Horkheimer.

La conclusione è che viene meno l’autonomia del singolo «perché la società pensa, giudica, canta e crede per lui»;62 tutto assume l’aspetto di una macchina implacabile che si estende a tutti gli aspetti della vita, tanto che le stesse attività di studio «hanno preso anch’esse l’impronta dello spirito tecnico e burocratico».63 Dopo aver disegnato un quadro del vivere dominato integralmente dai ritmi del lavoro industriale che coinvolgono gli stessi capi, Gentile nota che la possibilità di pensare e programmare uno spazio autonomo di fatto non c’è più, e propone un originale confronto della filosofia moderna con la tecnica e la burocrazia; tutte e tre «tendono a ricondurre i problemi confusi e complessi della realtà a questioni suscettibili di soluzione meramente logica».64  Egli considera la filologia «una sottile e squisita matematica dei sentimenti e delle loro inflessioni»65 e perciò assimilabile allo spirito della tecnica e della burocrazia, e conclude: «Si annida dunque, nella filologia, un razionalismo intrinseco e costituzionale»66 i cui procedimenti sono analoghi a quella della scienza naturale «a fondo matematico e alla produzione industriale a contenuto meccanico».67 A questo proposito, Gentile ricorda il caso della Germania, che nel corso dell’Ottocento sviluppò simultaneamente la tecnica industriale e la tecnica filologica «adottando il processo idealmente identico di scomporre all’infinito i problemi nelle loro parti costitutive e di trattare ognuno di questa singolarmente».68 In conclusione, la filologia realizza nelle scienze umane il metodo delle scienze naturali, ed è animata anch’essa dalla «nostalgia dell’avvenire», un avvenire in cui gli uomini potranno assolvere ogni funzione richiesta dalla società. A questo punto diventa legittimo porsi il problema delle Parentele spirituali con la filosofia moderna. Dopo avere ripetuto che il principio ispiratore della tecnica «si identifica con la tendenza speculativa e filosofica che vuol ritrovare nell’intelligenza matematizzante la ragion d’essere di tutta la realtà»,69 Gentile afferma che tecnica, burocrazia, filologia e scienze naturali sono l’espressione di «un unico atteggiamento fondamentale: sostituire alla tradizione come vivo flusso storico la nuda severità della ragione».70

Nella prospettiva scelta da Gentile, che tenta di definire un orizzonte significativo di tutto un mondo storico e sociale, il problema della tecnica finisce per rimandare all’interpretazione dell’origine storica e teorica della modernità, e, in definitiva si può dire che il problema della tecnica si identifica con il problema della filosofia contemporanea, rappresentata in modo rilevante dall’idealismo. Ora, l’Io dell’idealismo non è personale nel senso richiesto dall’umanesimo classico, esso ha, infatti, «i caratteri di impersonalità e trascendentalità, che appartengono alla costruzione della tecnica».71 In altri termini, l’idealismo si fonda sulla rappresentazione dell’Io come soggetto assoluto, creatore; ed è questa stessa rappresentazione che rimanda la sua immagine nel «disagio» con cui la coscienza contemporanea avverte il rapporto tra l’essere e il volere, che si accompagna al sentimento che nasce dal naufragio delle possibilità annunciate dalla cultura moderna: «la concezione trascendentale ha fatto dell’io il principio ordinatore e creatore del tutto, ma gli ha tolto la possibilità di essere se stesso come persona concreta».72

Alla ricerca di una sintesi

Nel primo capitolo dell’ultima sezione dell’opera, Alla ricerca d’una sintesiSignificato intimo del lavoro manuale, Gentile compie una vera e propria svolta rispetto all’approccio fin qui scelto; ognuno di noi, afferma, genio o normale lavoratore dà il suggello della sua personalità nel proprio lavoro: «Il lavoro, perciò, anche nelle sue forme più umili e limitate diventa, nell’atto concreto del suo esercizio, un principio di liberazione da quel che ha di soffocante e di opprimente il principio direttivo della tecnica assolutizzata».73 In questa e altre occasioni, Gentile delinea una specie di fenomenologia del lavoro secondo un principio variamente espresso: «l’amore del lavoro ben fatto, che conferisce alla fatica manuale la propria dignità etica, è una delle riserve provvidenziali della nostra vita spirituale».74 Oggi però, nota l’Autore, ci sono due ostacoli per chi vuol dare una giusta valutazione del lavoro manuale: la mentalità illuministica che ha svalutato l’intelligenza delle mani, e l’organizzazione sociale che ha tolto a molti lavoratori l’occasione di contatti con tale lavoro. D’altra parte, è importante saper cogliere gli aspetti rivelatori della presenza di valori umanistici, anche là dove difficilmente si sospetterebbe che agissero, come nel fordismo, nel cui intento programmatico, viceversa, Gentile pensa di poter scoprire effetti che fanno pensare, addirittura, al programma dell’umanesimo classico. L’esperimento fordiano, fondato su una stretta disciplina dei lavoratori, vuole infatti «ridestare l’umanità del lavoro in modi che sono più vicini a quelli dell’umanesimo classico, che non a quelli della pedagogia del lavoro».75 Quest’ultimo riferimento è all’opera del maestro e poi dirigente delle scuole elementari di Monaco Georg Kerschensteiner, che basò la sua riforma delle scuole elementari e popolari del 1906 sugli interessi pratici del ragazzo e sul lavoro manuale come strumento essenziale di educazione. Sul pensiero di questo fondamentale pedagogista, che subì l’influsso di Dewey e Pestalozzi, s’intrattiene Gentile, indicando aspetti di indubbia novità e altri meno attuali.

Altre fonti di “resistenza” al matematismo e alla concezione “geometrica” della vita e della società, sono registrati in direzione dell’esperienza concreta della famiglia, della persona e della società, argomento del successivo capitolo. Nella dimensione della razionalità tecnica, la famiglia è considerata ancora come mezzo efficace di distribuzione economica e come «la condizione attualmente indispensabile per la generazione fisica»;76 ci sono sì altri significati della famiglia, che però «non permangono come concetti, ma come nostalgie sentimentali»;77 la funzione spirituale e sociale della famiglia è respinta da due modelli di vita, quello degli individualisti e quello dei collettivisti, che ora hanno un largo consenso, mentre per Gentile la famiglia è «tra i valori più concordemente affermati dall’umanesimo moderno»; viceversa «per quella tecnica, che è fine a se stessa, la famiglia ha invece un significato molto diverso, per non dire che non ce n’ha affatto».78 Nella intimità della famiglia, nella sua realtà ristretta, eppur ricca di relazioni le più varie, rimane «l’indicazione ineliminabile di una concezione antitetica all’assolutismo della tecnica».79  In sintesi: diversità spirituale e fisica versus uniformità e omogeneità dei componenti di una serie numericamente ordinata; «la famiglia dimostra in tal modo una tendenza opposta a quella con cui la tecnica, la burocrazia e la scienza moderna sono venute ordinando e creando il proprio oggetto».80 La sofferenza della donna, rileva conclusivamente Gentile, è scissa tra le prospettive di apertura infinita del calcolo numerico, e il richiamo alla società chiusa e limitata della famiglia. «Ma come per l’operaio il meccanicismo astratto è vinto dall’amore che egli porta al proprio lavoro [...] così per la donna la seduzione di un mondo che la uniformi e la pareggi all’uomo, è superata dalla voce del sangue, più potente di tutti i ragionamenti».81 Dalla sua analisi della donna nella famiglia, giunge a questa conclusione di carattere teorico: «L’assolutismo della tecnica è vinto dunque, prima che da riflessioni speculative da queste due realtà elementari: l’operaio [...] e la madre. Essi sono accomunati, nella silenziosa rivolta, dal valore universalmente umano che riconoscono alla loro opera».82 Qui si trovano le radici autentiche della socialità, e non nelle ipotesi intellettualistiche di un individualismo originario, presente tanto nel liberalismo come nel collettivismo. Gentile è ritornato sul problema della famiglia, essenziale nella sua concezione della società: La famiglia nella filosofia politica moderna (Roma 1982).

Il capitolo su La filosofia come unità del sapere affronta un problema che finora è stato presente in modo carsico; l’esigenza dell’umanesimo, la quale resiste e affiora nelle «zone più umili della vita sociale», reca con sé, nella sua espressione più consapevole ed elaborata, «come il principio di una nuova sintesi scientifica».83 Essa si manifesta, diffusamente, «nel bisogno e nel proposito di ricostruire a grandi linee, dal proprio punto particolare, l’intero tessuto della ricerca scientifica».84 Ove sia dato superare le strettoie del matematismo e della consequenzialità formale del calcolo astratto, questo bisogno si chiama filosofia, perché «l’umanesimo [...] degli studi può avere ancora oggi il nome antico di filosofia, se esso è inteso nella sua originaria freschezza e sincerità».85 Alla sua realizzazione si presentano due ostacoli; il primo è un «impedimento prevedibile», che consiste nello «spirito matematizzante»,86 il matematismo, ossia «l’estensione della mentalità matematizzante a campi che non le sono propri».87 Esiste poi un secondo «ostacolo veramente imprevedibile», perché è rappresentato dalla stessa filosofia, nel senso professionale della parola.

Occorre distinguere, dunque, tra la filosofia come «aspirazione incoercibile alla verità e alla coerenza integrali», e la filosofia come «complesso sistematico», con un «certo grado di maturità tecnica», che si presenta come attuazione, anche se parziale, di quella aspirazione.88 Ma la filosofia, si sa, «non è un complesso di nozioni, ma un’apertura più piena dell’intelligenza»,89 il cui spirito critico non è identificato pregiudizialmente, o non è metodicamente commisurato dalla sua prossimità con figure che si sono date storicamente nel corso della filosofia moderna, quale, ad esempio, quella del criticismo kantiano. A questo proposito, Gentile individua con acume il dogmatismo reale della filosofia programmaticamente ‘critica’, la quale segue una ricerca che in­vece di aprirsi alla schiettezza della verità umana, istituisce «una ricerca tecnica, definita in maniera analoga a quella delle altre scienze tecnicamente determinate»,90 e perché «è determinata nella sua essenza dal mito illuministico del regno dell’uomo».91 Elemento integrante di questo secondo aspetto del dogmatismo moderno, è la «razionalizzazione» della storia, concepita come «serie di momenti, il cui significato è predeterminato dall’indicazione della meta».92 Vi sono in realtà, puntualizza Gentile, due modi di considerare la storia: uno, che ricerca in ogni evento il contenuto, in un certo senso, eterno, vale a dire l’aspirazione a una «realtà che andasse oltre la realizzazione contingente»;93 l’altro, in cui il valore degli eventi singoli «viene costretto nei termini di una serie, per la quale essi fungono da gradini successivi e parziali, anziché come tentativo di attuazione integrale dei valori umani».94  Si tratta, in questo secondo caso, di una «esplicazione quasi geometrica di un intento unico», posto dal ricercatore per conto proprio; essa è «viziata dal mito del progresso», il che significa la ricaduta nel razionalismo illuministico, che, in fondo, «traduce in termini di vicenda umana il disegno matematizzante della natura».95 Gentile, dunque, perviene a questa icastica affermazione: «In conclusione, l’umanesimo si esprime negli studi come aspirazione a un’unità che superi il frammentarismo e l’eccessiva specializzazione»,96 precisando gli ostacoli che l’umanesimo si trova di fronte: il matematismo, il tecnicismo, il razionalismo, ossia posizioni centrali nella cultura contemporanea che pur hanno una loro ragion d’es­sere. Di contro l’umanesimo, nelle sue diverse forme storiche, ha avuto come idea-guida un principio di ragione e di volontà che trascendendo l’individuo e l’umanità ne garantisce l’individualità e il valore. Nella Postilla 22, Gentile precisa in questi termini i rapporti fra umanesimo e storia: «L’umanesimo ha per sé molti, intimi legami con la storia. Basti ricordarne due: essa fa convergere tutto il patrimonio della cultura alla formazione dell’uomo storicamente e puntualmente attuale, e delle epoche passate ciò che più esso rileva è la determinatezza e concretezza, con le quali nello sviluppo delle forze cieche si sono celebrate le capacità e la potenza dell’uomo; ora concretezza e determinatezza sono storicità. Con un pizzico di paradosso si potrebbe andare più in là e sostenere che soltanto la formazione umanistica ha possibilità di nutrirsi di storicità effettiva».97

Nel capitolo La realtà dei valori etici, inizia con una specie di messa a punto di ciò che si è fatto fin qui («Nella strada percorsa sinora si è tenuta questa guida»).98 Nella prima tappa si è data una definizione dell’umanesimo partendo dai principi teorici e giungendo alle conseguenze. L’umanesimo non solo non è ostile alla dimensione dell’operare, essendo «anzi gioiosamente consono con le necessità di una produzione che abbia conseguita maturità e perfezione tecnica».99 E allora, donde deriva la presunzione del contrasto? Il vero antagonista, afferma Gentile, è rappresentato dal principio direttivo da cui è scaturita la tecnica, che comprende «l’organizzazione sociale e politica, la scienza e la cultura speculativa, non meno della produzione industriale».100 La seconda tappa riguarda «la verità della tecnica», una ricerca più complessa della precedente perché si compie secondo una via inversa a quella della ricerca dell’umanesimo, ossia «ricavando i principi dalle realizzazioni particolari».101 Ora la tecnica è divenuta «una concezione totale della vita» e da ciò deriva quella «inquietudine sociale» che ha introdotto una componente angosciosa nel lavoro tecnicizzato. In conclusione, alla base della tecnica c’è un «concetto della ragione opposto a quello dell’umanesimo classico»,102 nel senso che l’uomo è identificato con la pura ragione, non persona ma Io trascendentale. In questa prospettiva la tecnica non è tanto o solo un insieme di realizzazioni tecniche, «quanto una concezione speculativa e dottrinale, non meno dell’umanesimo».103 L’antagonismo più vero va cercato nell’ordine etico dei valori, eticità significa, in generale, «il rapporto tra quel che c’è, e quel che ci deve essere».104 Ma qual è il dovere? Per la tecnica, il dovere «è quello della progressione infinita della chiarezza razionale e dell’aumento quantitativo»,105 riducendo tutto a numero, calcolo e legame logico. All’«oggettivazione esteriore» della concezione tecnica, l’umanesimo contrappone il rapporto dell’uomo con la natura, grazie «al dominio intimo della ragione sulle forze immediate della vita umana».106 In definitiva, la differenza fra le due concezioni è espressa da Gentile in questi termini: «Mentre la tecnica ignora l’eticità come un valore distinto dalle operazioni che ne dovrebbero subire il dominio, l’etica è l’affermazione suprema dell’umanesimo».107 Infatti, «la tecnica non indica, né vuole, né può indicare un vero fine. [...] Tutto si fa in vista di altro; e la tecnica non può determinare in che cosa quest’altro consista. Se lo determinasse, diventerebbe umanesimo […]».108

Da ciò consegue che l’opposizione tra umanesimo e tecnica è esprimibile come una contrapposizione fra etica e non etica, «cioè tra la presenza e l’assenza di un fine che abbia un valore per se stesso».109 Il dissidio dell’umanesimo con la tecnica «fatta fine a se stessa» è radicale, ma muta e si trasforma se la tecnica ha consapevolezza della sua strumentalità. In questo caso c’è un rapporto di «derivazione»,110 l’ideale etico come condizione di possibilità storica e dottrinale, dell’esplicazione e diffusione della tecnica.A questo proposito Gentile ricorre alla testimonianza – magari contraddittoria –, dell’esistenzialismo, che tenta di recuperare la concretezza dell’uomo individuale – il singolo –, allontanandolo dall’astrazione della soggettività trascendentale. Il valore religioso di questa richiesta nasce come “angoscia” e “cura”; c’è un collegamento necessario tra umanesimo e rinascita della sensibilità religiosa, se si chiarisce che la celebrazione umanistica dell’uomo, non ha nulla a che fare con l’utopia illuministica, che esclude la trascendenza di Dio. La concretezza e insufficienza della “persona”, comportano la domanda circa la possibile integrazione dell’attività umana. L’umanesimo si è sempre opposto alla scompostezza dell’inquietudine “mistica”, contribuendo così al costituirsi di una vera religiosità, che non significa rinuncia alla razionalità, ma esigenza di comunicare con l’assoluto. L’umanesimo ha svolto questa funzione tra il XII secolo e l’inizio del XIII, quando il «sogno torbidamente mistico» delle eresie manichea, albigese e catara fu fronteggiato e vinto dalla «reviviscenza cristiana dell’umanesimo antico» e ciò «consente di salutare in S. Tommaso d’Aquino uno schietto umanista».111 Nella Postilla 20 Gentile afferma: «L’umanesimo facendo sentire come in ogni momento e in ogni sintesi speculativa l’uomo sia [...] con le ragioni supreme del suo essere di tutta la realtà, è prezioso a una concezione schiettamente e integralmente religiosa, anche se non la richiede di necessità in tutta la sua perfezione e anche se conserva un suo proprio valore pure al di fuori di essa».112

Il punto cruciale nell’esame dei rapporti tra umanesimo e tecnica sta in una sorta di “capovolgimento” radicale del punto di vista più diffuso; un’affermazione che apre l’ultimo capitolo dell’opera, Tradizione e rivoluzione: «Trasformare l’antagonismo tra umanesimo e tecnica in una subordinazione, per cui, anziché opporsi, essi avrebbero una funzione complementare, l’una di fine l’altra di mezzo».113 L’argomentazione è di questo tipo: fin dall’inizio l’umanesimo è stato presentato come un rapporto gerarchico tra le attività umane, «ora se la tecnica è l’esercizio esclusivo di un solo ordine di tali attività, i casi sono due: o si riesce a mostrare che l’uomo si riduce alla sola attività produttiva, e non ha più senso la gerarchia umanistica»,114 o l’attività produttiva esige un’integrazione, e allora l’umanesimo acquista il ruolo di principio direttivo. Ebbene, «il mondo contemporaneo si preoccupa di smentire coi fatti la prima eventualità, resta dunque soltanto la seconda».115 Pertanto, il contrasto più attuale è come inserire i risultati della tecnica nella tradizione umanistica; e ciò ha un rilievo particolare in Italia, ove l’umanesimo ha una lunga e viva eredità storica, di cui Gentile illustra gli aspetti positivi e i meriti nel corso dei secoli, dal Quattrocento al Settecento, senza tacere l’involuzione «tecnica» dell’umanesimo nella stessa scuola classica italiana, ove prevale «una certa abilità alla riproduzione dei temi più solenni della letteratura, anziché l’attitudine all’osservazione e all’espressione del proprio campo di attività e di ricerca».116 La risposta a questa decadenza in atto è individuata da Gentile nell’introduzione nella scuola del lavoro manuale, nei modi e con le motivazioni espresse nella Carta della Scuola di Bottai, in cui la novità del lavoro ora sta nel valore morale che gli è assegnato, indipendentemente dalla sua perfezione tecnica, per il rapporto in cui è messo con la dignità della persona umana. Pertanto occorre riconoscere il valore etico di molti dei problemi che si analizzano anche in discipline “tecniche” delle scuole professionali, così come stare in guardia di fronte al tecnicismo estraniante che s’introduce nel campo dell’insegnamento letterario e storico-filosofico. Il discorso dell’umanesimo, dunque, ritorna alla scuola, al compito decisivo che essa ha avuto e ha tuttora nel renderci consapevoli «dell’organico nesso che stringe insieme cultura e professione, formazione umanistica e addestramento tecnico, e torna perciò in primo luogo a quell’università, ch’è nata dalla consapevolezza di tale vincolo».117 Dopo queste ultime acquisizioni storiche e teoriche, Gentile dichiara che «la conclusione di tutto il libro vuol essere questa: che l’umanesimo oggi non ha i suoi nemici né nel lavoro manuale, né nella macchina, né nella disciplina sociale, ma in un principio più sottilmente attivo, teorico, anziché pratico. [...] I veri nemici sono nel nostro attaccamento al dottrinarismo astratto e matematizzante»,118 nelle nostre abitudini scolastiche e amministrative.

Alcune deduzioni

Il primo dato che emerge dalla lettura di Umanesimo e tecnica è che siamo di fronte a un libro non di cultura, o di sociologia, o di psicologia sociale, ma di filosofia nel significato dato da Gentile, ossia come la risoluzione dialettica dell’esperienza, ricondotta alla condizione di problematicità pura. In questo senso c’è una continuità, sia pure non sempre compiutamente esplicita, con i due scritti del 1942 già segnalati, che sono molto prossimi cronologicamente a Umanesimo e tecnica, in cui si conclude la prima formazione di Marino Gentile filosofo, con lo sviluppo dell’umanesimo classicista e filologico iniziale (Jaeger e Stenzel), in un umanesimo come principio speculativo della metafisica classica. A tale proposito, un ulteriore approfondimento e una sistemazione pressoché definitiva dei rapporti tra problematicità e umanesimo si trova nel capitolo di Filosofia e umanesimo: La posizione umanistica della problematicità pura.

Nella prima sezione dell’opera, Alla ricerca dell’umanesimo, Gentile ha precisato in via preliminare che «il segno distintivo dell’umanesimo di tutti i tempi», è «la fiducia sovrana nella originalità vittoriosa e inesauribile dello spirito», nel senso che «chi è abituato a sorprendere i moti dell’animo nella parola, sa che la vita è novità in continuo progresso; sa che è nuovo anche molto di ciò che è ripetuto».119 Da ciò una tesi fondamentale che è alla base dell’opera: non solo l’umanesimo è «una concezione totale dell’uomo e della vita»,120 la quale si è imposta nella cultura e nella pratica della vita contemporanea, ma la tecnica è anche «una concezione speculativa e dottrinale, non meno dell’umanesimo».121 La tecnica, dunque, non è lo strumento o l’insieme di strumenti che realizza ciò ha denotato una teoria, è essa stessa una teoria, di cui Gentile ricerca la genesi storica e lo sviluppo nel corso dei secoli, individuando le ragioni della sua potenza conoscitiva e pratica, e i motivi che ci dovrebbero far scegliere, ancora oggi, l’umanesimo.

Gentile stabilisce poi una differenza essenziale tra l’umanista e il «progressista»; per l’umanista, dichiara, «la perfezione non si ritrova nell’occupare un posto cronologicamente recente, ma nella ‘classicità’»,122 il cui concetto equivale a quello di umanistico, nel senso «dell’esplicazione migliore delle attitudini umane».123 Dalla classicità, che significa «valore di energia spirituale perenne»,124 a «classico», che significa ciò che si è dato in passato (di qui l’imitazione degli antichi), per cui la novità consiste nell’essere venuti dopo nella serie temporale.

Un momento storicamente decisivo nella crisi del concetto di «classico», avviene alla fine del Rinascimento: l’età “moderna” nasce contro la tradizione, con un bisogno forte di «scuotersi di dosso il peso della classicità antiquaria e erudita»125 ricominciando da capo. Essa si dispiega completamente nell’illuminismo, «dichiarando chiusa l’epoca delle tenebre e annunziando la luce del progresso per opera di una nuova umanità e di una nuova ragione».126 A questo punto Gentile affronta uno dei nodi più notevoli della sua analisi; egli riconosce che il baconiano regnum hominis, ossia l’obiettivo di realizzare il dominio dell’uomo sulla natura, è un motivo comune dell’umanesimo e dell’illuminismo, ma individua due radicali differenze fra l’uno e l’altro orientamento sul concetto cruciale di «ragione». La ragione dell’illuminismo «non è universalmente umana», ed è «al servizio delle utilità pratiche e produttive, anziché dominarle».127 La concezione matematica della natura è strettamente associata alla «instaurazione mediante la tecnica del regno assoluto dell’uomo», per cui «posto nei termini di un teorema matematico, la realtà è un problema che l’uomo può risolvere con le sole sue forze».128 In conclusione, l’illuminismo e l’umanesimo sono molto distanti nella scelta delle forme e dei mezzi con cui concepiscono il regnum hominis. Nella Postilla 17 la differenza è ulteriormente argomentata. «L’umanesimo astratto dell’illuminismo ha celebrato sì l’uomo, ma lo ha anche avulso dalla società degli altri uomini e delle cose e lo ha rinchiuso nella soddisfazione individualistica ed egoistica di formarsi un proprio mondo, che lo riconosce padrone e creatore, ma che ha il grave inconveniente di non essere il mondo della realtà».129

Ciò ha permesso a Gentile di chiarire l’antagonismo teorico fra i due orientamenti: il «principio ispiratore della tecnica [...] si identifica con la tendenza speculativa e filosofica che vuol ritrovare nell’intelligenza matematizzante la ragion d’essere di tutta la realtà».130 D’altra parte, Gentile non intende marcare una differenza fra chi esalta la pratica scientifica e chi la nega; c’è una «fecondità produttiva anche nella paideia greca e nell’institutio romana»,131 nel senso che è intrinseco all’umanesimo il dominio delle energie naturali; una conferma si trova «nelle personalità geniali di uomini universali, quali Leon Battista Alberti e Leonardo Da Vinci, pronti con la stessa energia a edificare una chiesa o un libro, un quadro o una macchina».132 Gentile prosegue nell’analisi delle caratteristiche e dei motivi di distinzione o contrapposizione fra umanesimo e tecnica, escludendo, infine, ogni tipo di mediazione o compromesso. Occorre pensare in maniera radicale la «conciliazione», dichiara, che non può consistere che nella subordinazione della tecnica al principio dell’umanesimo, ed enumera le ragioni dottrinali della «superiorità» dell’umanesimo nella visione dell’uomo e nel concetto di ragione: aspirazione all’universalità e concretezza storica. La tecnica, viceversa, ricondotta al suo principio, presuppone una visione monca dell’uomo e della sua razionalità: l’universalità a prezzo della omogeneizzazione quantitativa e della perdita dell’originalità dell’individuo. Un ultimo e molto importante elemento di contrapposizione riguarda il concetto di fine e di dovere; sono «due simboli di due opposte concezioni, che sono insieme teoriche e pratiche».133

La tecnica, esaltando il progresso indefinito, è costretta a considerare la strumentalità del mezzo, e dunque di se stessa, come ciò che vale per sé stesso, e, dunque, come fine. A questo punto, Gentile ricorre a quel che mi sembra una vera e propria “rottura epistemologica” nella disamina delle ragioni che militano a sfavore della tecnica di fronte ai valori dell’umanesimo. La tecnica, che oggi ha una dimensione e una presenza eccezionali e che coinvolge la vita degli uomini e delle donne di tutti i continenti, come ha chiarito in termini inequivoci il sociologo Zygmunt Bauman, non è scelta o respinta sulla base di una critica intellettualistica, sia pure molto argomentata e persuasiva come quella svolta da Gentile. Occorre considerare quali sono i caratteri autentici della vita, e vedere se possono essere adeguatamente classificati nell’ordine che caratterizza la tecnica. Ebbene, secondo Gentile, e qui consiste la novità originale della sua analisi, è la vita stessa che fuoriesce da tale ordine e richiede di andare oltre gli schemi della tecnica. «Far bene il proprio lavoro domanda intelligenza, prontezza e probità: c’è nel lavoro ben fatto, per quanto frammentario esso sia, una certa compiutezza ideale, che può, in un certo senso, essere fine a se stessa».134

L’analisi va oltre, fino a questa affermazione di carattere gene­rale. «Il ferreo disegno matematico della tecnica è contraddetto, perciò, prima che da ragioni speculative, dalla realtà del lavoro colto nelle sue forme immediate e manuali: visto lì, nella sua più umile concretezza, il lavoro dimostra un’inventività e un valore morale, che la tecnica in quanto tale ignora»;135 inventività e moralità, vale a dire le fonti sorgive della interiorità. La conclusione cui perviene Gentile è che «l’assolutismo della tecnica è vinto dunque, prima che da riflessioni speculative da queste due realtà elementari: l’operaio [...] e la madre. Essi sono accomunati, nella silenziosa rivolta, dal valore universalmente umano che riconoscono alla loro opera».136 Affidare, come fa Gentile, alle testimonianze più genuine della vita individuale e collettiva, pratica e conoscitiva, la funzione di «confutare» le pretese della razionalità matematizzante di valere come orizzonte di verità, testimonia i residui di eccedenza in cui la vita resiste alla sua riduzione al calcolo oggettivato.

Un altro aspetto innovativo dell’opera risiede nel rilievo che è assegnato alla cultura romana; Gentile si sofferma sull’opera di Aulo Gellio (II sec. d.C.), che fin da giovane soggiornò ad Atene ove si perfezionò nelle arti liberali, per giungere in età matura a Roma, ove scrisse la sua unica opera che ci è rimasta, Noctes Atticae, prodotto delle sue letture e colloqui con letterati, filosofi e retori del suo tempo. Gentile dà un rilievo all’idea fondamentale di Gellio, secondo cui la humanitas romana corrisponde alla paidea greca, e su ciò si intrattiene nella Institutio. Egli affronta il problema del rapporto con il latino in termini nuovi rispetto a una credenza diffusa che lo considera «una ginnastica preparatoria, non si sa bene a che cosa. La verità è un’altra: il latino non è preparatorio a niente, è fine a se stesso, perché è conoscenza impegnativa di un modo di pensare e di vivere, di cui l’antica Roma ha fornito un esempio, ma non ha esaurito per nulla le possibilità».137 E precisa in termini esemplificativi: «Si studia il latino, per parlare, per pensare, per vivere da Romani». Infine, Gentile mette in rilievo il nesso stretto fra umanesimo e latinità, con ciò ribadendo il rappor­to di continuità individuato da Gellio: «L’umanesimo ha diritto di contrassegnare questo vivere latino, perché soltanto Roma ha fatto concretamente della cultura ellenica il principio dell’educazione civile di tutto il mondo».138

Nella seconda sezione dedicata Alla ricerca della tecnica, Gentile ha affrontato il problema della tecnica e del lavoro secondo prospettive elaborate da alcuni sociologi o psicologi del lavoro del Novecento, il cui pensiero egli ha estesamente utilizzato, e lo ha dichiarato. Accenniamo in particolare ad alcuni di questi sociologi, di cui egli ha utilizzato le opere; di Henri De Man, Il superamento del marxismo (1929) e La gioia del lavoro (1931). Egli ha sostanzialmente accolto la descrizione della mentalità borghese nell’operaio ‘evoluto’, la critica degli effetti antisociali della proposta socialista, l’individuazione degli ostacoli alla gioia del lavoro. Il suo interesse maggiore va però ad alcune opere di Ford, come La mia vita e la mia opera (1925), Perché questa crisi mondiale? (1931), Progresso, che utilizza in varie occasioni, specie quando sottolinea gli aspetti psicologici del lavoro, o il contesto in cui il lavoro è inserito. Un certo rilievo è stato dato in più momenti all’opera del fisico e industriale Federico Dessauer, Filosofia della tecnica,139 che ha avuto allora una certa circolazione. Gentile ritiene che l’autore abbia compiuto un’analisi seria di alcuni problemi, ma abbia a volte indugiato in affermazioni di carattere religioso che non sembrano appropriate all’argomento.

Marino Gentile è l’unico filosofo italiano, a mia conoscenza, che nel primo Novecento abbia affrontato il problema dei rapporti fra umanesimo e tecnica, dopo un esame della vasta bibliografia sull’argomento. Ci sono stati articoli di riviste e qualche saggio puntualmente segnalati nella bibliografia, ma nessuno studio com­plessivo secondo una concezione dell’umanesimo sotto il profilo storico e filosofico. Egli stesso riconosce che «manca una trattazione complessiva dell’umanesimo moderno o neoumanesimo o umanesimo integrale», di cui egli distingue «tre fasi, distinte per tempo, per luogo e per orientamento»,140 su cui si sofferma nelle prime pagine, precisando i caratteri dell’umanesimo in Germania, Francia e Italia. La bibliografia sull’Italia, in cui prevale l’interesse pedagogico, è pressoché completa, e comunque è esatto che «il valore spirituale del lavoro e della tecnica è stato alquanto trascurato sino a poco tempo fa dal pensiero speculativo e pedagogico».141 Il riferimento è alla Carta della scuola che ha determinato un vasto interesse e interventi molto numerosi di professori, studiosi, giornalisti sull’argomento. Essa riconosce il valore del lavoro all’interno di un umanesimo moderno, il cui «motto sintetico dato dal suo teorico, G. Bottai, è ‘sententia, ordo, certamen’. [...] Dello stesso Bottai piace ripetere anche le parole conclusive dell’articolo ne ‘La Rinascita’ [L’umanesimo nella scuola italiana]: l’immensa recuperazione di valori, alla quale ci prepara il domani, troverà anche nel nido antico volontà, speranza, energie, misura».142 Su Bottai e la sua attività di politico e teorico dell’umanesimo moderno, Gentile ha dato questa conclusiva valutazione. «Secondo la concezione della Carta della scuola, che rivela il felice equilibrio della mentalità latina, l’esercizio del lavoro non dev’essere uno strumento di vendetta sociale o di livellamento utopistico, bensì deve inserirsi nel quadro generale delle forze educative, per divenire mezzo armonico e concorde di formazione personale e di concordia civile. [...] L’innovazione ha indubbiamente struttura rivoluzionaria in confronto con l’organizzazione scolastica in atto e con le concezioni pedagogiche precedenti, ma, mentre si oppone nettamente per mentalità e metodo alla scuola sorta dal mito illu­ministico del regno dell’uomo, prosegue idealmente le espressioni migliori del nostro Rinascimento», quelle del Medioevo cristiano e della romanità imperiale.

Una particolare importanza, nell’economia dell’opera, ha il lavoro manuale e industriale; abbiamo accennato che Gentile ha una conoscenza delle opere di sociologi italiani ma soprattutto stranieri che al lavoro hanno dedicato saggi e libri. A me sembra che la sua analisi del lavoro sia sostanzialmente condizionata dagli scopi che egli individua all’interno dei rapporti fra tecnica e umanesimo. Il suo obiettivo è eminentemente filosofico, e perciò a volte si avverte una torsione del lavoro in sensi plurimi e non sempre tra loro coerenti. A volte egli ha un atteggiamento verso la fabbrica che sconfina nell’ammirazione, e perciò è acritico: «Lo spettacolo meraviglioso di una fabbrica moderna può confermare nella convinzione, spesso sottintesa, che il progresso di produzione infinita è giustificazione sufficiente di tutta l’attività umana».143  D’altra parte, egli riconosce che il lavoro, come è vissuto dal lavoratore in fabbrica, fuoriesce dagli schemi della tecnica, e ci fornisce una modalità significativa che apre alla comprensione dell’umanesimo nel mondo contemporaneo, ossia nel mondo in cui la potenza della tecnica è al centro della scena mondiale, tanto che per qualche filosofo essa si è trasformata da mezzo a fine dell’azione. Fra i diversi problemi sociologici affrontati da Gentile, un rilievo particolare ha quello sulla burocrazia, di cui disegna un quadro articolato e attendibile, riconoscendone la centralità, tanto da affermare che «lo spirito burocratico impronta di sé il mondo contemporaneo».144 Inoltre, Gentile dà una valutazione ampiamente positiva della riforma della scuola proposta da Bottai, alla quale ha dedicato un ampio capitolo della sua Institutio. A tale proposito, occorre rilevare che l’interesse per la scuola, la sua organizzazione, i suoi programmi, è una ‘costante’ nell’attività di Gentile; una parte cospicua della sua bibliografia è dedicata appunto ad analisi e interventi sulla scuola. Nel primo capitolo della Carta della Scuola, in cui Bottai raccoglie i suoi scritti, enuncia i caratteri dell’umanesimo moderno, il cui motto sintetico è «sententia, ordo, certamen». Gentile collaborò come consulente con il ministro dell’Educazione Nazionale G. Bottai alla redazione della Carta della scuola, e alcune sue idee si ritrovano nei programmi della nuova scuola media, in cui si afferma che la scuola «con i primi fondamenti della cultura umanistica e con la pratica del lavoro saggia le attitudini degli alunni, ne educa la capacità; e in collaborazione con le famiglie, li orienta nella scelta degli studi e li prepara a proseguirli»; una formulazione in cui è difficile negare la mano di Gentile. Ricordiamo inoltre che Gentile stilò le «Linee fondamentali dei nuovi programmi delle scuole elementari» del 14 luglio 1955 (la legge di G. R. Ermini, ministro della Pubblica Istruzione), e anche in questo caso sarebbe opportuno vedere quanto delle idee di Gentile siano presenti. Accennerei al rilievo tutto particolare che assume in più occasioni il lavoro manuale, oltre che un richiamo «alla nostra tradizione educativa umanistica e cristiana».

Un cenno ulteriore sulla concezione della «romanità» in Gentile; non è solo o tanto un recupero archeologico, o storico, o culturale; è qualcosa di più, come dichiara nella Institutio, l’opera che doveva essere scritta insieme ad Armando Carlini, con cui Gentile si laureò, ma non si trovarono d’accordo sull’impostazione da dare, come è attestato dall’ampio epistolario fra i due. La sua tesi fondamentale è che «umanesimo e romanità implicano nello stesso tempo una rielaborazione di tutti i problemi della cultura».145 In altri termini, l’opera di mediazione culturale, in senso lato, della cultura greca compiuta da Roma è stata tale da averci dato un’immagine dell’umanesimo tuttora valida e operante. E ciò perché «quell’uomo, difatti, che siamo andati delineando, è alle radici storiche, fisiche e spirituali del nostro popolo, è nella romanità ch’esso ha custodito gelosamente attraverso i secoli, non per amore archeologico, ma per necessità della propria natura, cioè per essere veramente se stesso».146 (E «Tutto ritorna all’uomo» è il motto scelto da Gentile per la sua opera).

Da tutto ciò che siamo andati dicendo sull’atteggiamento di Marino Gentile nei confronti dei rapporti tra umanesimo e tecnica, si può conclusivamente affermare che, secondo lui, la tecnica deve essere subordinata al principio dell’umanesimo, la cui idea ispiratrice è «quell’anelito di universalità e di unità che percorre, animandole, tutte le forme del sapere, anzi della vita».147 La diversa ispirazione che anima i due modelli antagonisti di razionalità si manifesta con l’evidente contrapposizione che nel campo della prassi distingue il programma essenziale dell’umanesimo – esaltazione della dignità e della potenza dell’uomo –, dai risultati ottenuti dalla trionfante tecnica: la riduzione dello stesso uomo a ‘oggetto’ programmabile e calcolabile, nel quadro di una società collettivistica. Come risposta, Gentile propone la validità di quell’«umanesimo tradizionale e perenne», che si perfeziona nell’incontro con l’esperienza cristiana, e che più compiutamente soddisfa le esigenze originarie dell’umanesimo. Sono questi gli attori di quel confronto che si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi e che occupa l’intero scenario della civiltà odierna. Si tratta, nelle parole di Gentile, di quel «duello gigantesco tra due concezioni della realtà. Per l’una di esse l’uomo raggiunge la propria compiutezza nell’armonia etica della ragione e del senso, per l’altra esso si identifica col processo che travolge nella necessità del ragionamento astratto la molteplicità delle persone e la varietà della storia». E nella Postilla 23 Gentile sintetizza: «L’umanesimo moderno vuole essere il rinvigorimento e il ridestamento delle energie perenni dell’umanesimo nella forma più adeguata alle nostre esigenze attuali».

Cenno sulle Postille autografe

Diamo un cenno alle numerose Postille autografe che abbiamo più volte utilizzato. Sono state scritte da Marino Gentile su foglietti, con l’evidente intento di inserirle in una seconda edizione di Umanesimo e tecnica. Ne parlò a lungo con il suo assistente, prof. Giulio F. Pagallo, a cui diede l’opera con le postille per una valutazione. Ma quando Pagallo si recò da Gentile per esprimere un giudizio positivo sulla ristampa dell’opera, questi rispose che non gli sembrava opportuno ripubblicarla. Pagallo si trasferì poi in Venezuela ove fu professore di filosofia nella Universidad Central de Venezuela, Caracas per oltre un ventennio, ma l’opera di Gentile non pervenne, quando rientrò in Italia, fra i libri che gli furono spediti.

Sono testi che hanno lo scopo di precisare, approfondire, integrare affermazioni su problemi fondamentali, secondo un obiettivo che egli stesso espresse nell’Avvertenza su cui ci siamo soffermati. Alcuni anni or sono io e Giulio Pagallo iniziammo un comune lavoro per una introduzione a Umanesimo e tecnica nella previsione di una possibile pubblicazione, ma purtroppo la sua morte impedì di concludere quell’iniziativa. La concludo ora, in occasione della felice offerta da parte di Petite Plaisance, e la dedico a Giulio Pagallo nel segno dell’amicizia che ci legò per molti anni.

Note

1 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, Istituto di propaganda libraria, Milano 1943; cfr. infra, p. 39.

2 Ibidem, p. 13; cfr. infra, p. 39.

4 Ibidem; cfr. infra, p. 39.

5 Giulio F. Pagallo, Il significato di “Umanesimo e Tecnica” (1943) nella formazione filosofica di Marino Gentile, in: Enrico Berti (a cura di), Marino Gentile nella filosofia del Novecento, Napoli 2003.

6 Giulio F. Pagallo, Il significato di “Umanesimo e Tecnica”…, in Enrico Berti (a cura di), Marino Gentile nella filosofia del Novecento, op. cit., p. 114.

7 Su questo argomento mi sono soffermato in: Il problema dell’unità del sapere nel dialogo tra M. Gentile e L. Geymonat, in: Enrico Berti (a cura di), Marino Gentile nella filosofia del Novecento, op. cit.

8 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., pp. 13-14; cfr. infra, p. 39.

9 Ibidem; cfr. infra, p. 39.

10 Ibidem, p. 17; cfr. infra, p. 43.

11 Ibidem; cfr. infra, p. 45.

12 Ibidem, p. 21; cfr. infra, p. 46.

13 Ibidem, p. 23; cfr. infra, p. 47.

14 Giuseppe Bottai, La Carta della Scuola, Mondadori, Milano 1939.

15 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 27; cfr. infra, p. 51.

16 Marino Gentile, Institutio: sommario storico di filosofia dell’educazione, La Scali-gera, Verona 1942, p. 5.

17 Marino Gentile, Cultura e tecnica, in “Humanitas”, Rivista mensile di cultura, Morcelliana, Brescia 1949, p. 822.

18 Cfr. infra, p. 47.

19 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 29; cfr. infra, p. 52.

20 Ibidem; cfr. infra, p. 53.

21 Ibidem; cfr. infra, p. 52.

22 Ibidem, p. 30; cfr. infra, p. 53.

23 Ibidem, p. 33; cfr. infra, p. 55.

24 Cfr. infra, p. 57.

25 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 35; cfr. infra, p. 57.

26 Ibidem, p. 36; cfr. infra, p. 58.

27 Ibidem, p. 37; cfr. infra, p. 58.

28 Ibidem, p. 38; cfr. infra, p. 60.

29 Cfr. infra, p. 63.

30 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 46; cfr. infra, p. 65.

31 Ibidem, p. 47; cfr. infra, p. 66.

32 Ibidem, p. 48; cfr. infra, p. 67.

33 Ibidem, p. 49; cfr. infra, p. 67.

34 Marino Gentile, Institutio: sommario storico di filosofia dell’educazione, op. cit., pp. 82-83.

35 Cfr. infra, p. 175.

36 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., pp. 51-52; cfr. infra, p. 69.

37 Ibidem, p. 69; cfr. infra, p. 83.

38 Ibidem, p. 70; cfr. infra, p. 83.

39 Ibidem, p. 72; cfr. infra, p. 85.

40 Ibidem, p. 73; cfr. infra, p. 85.

41 Ibidem; cfr. infra, p. 86.

42 Ibidem, p. 77; cfr. infra, p. 89.

43 Ibidem; cfr. infra, p. 89.

44 Ibidem, p. 79; cfr. infra, p. 91.

45 Ibidem, p. 80; cfr. infra, p. 92.

46 Ibidem, p. 82; cfr. infra, p. 93.

47 Cfr. infra, p. 94.

48 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 81; cfr. infra, p. 93.

49 Ibidem; cfr. infra, p. 93.

50 Ibidem; cfr. infra, p. 93.

51 Ibidem, p. 85; cfr. infra, p. 95.

52 Ibidem, p. 86; cfr. infra, p. 96.

53 Ibidem; cfr. infra, p. 96.

54 Ibidem, p. 87; cfr. infra, p. 97.

55 Ibidem, p. 88; cfr. infra, p. 97.

56 Ibidem, p. 89; cfr. infra, p. 98.

57 Ibidem, p. 94; cfr. infra, p. 101.

58 Ibidem, p. 99; cfr. infra, p. 105.

59 Ibidem, p. 100; cfr. infra, p. 106.

60 Ibidem, p. 105; cfr. infra, p. 111.

61 Ibidem, p. 106; cfr. infra, p. 111.

62 Ibidem, p. 107; cfr. infra, p. 112.

63 Ibidem, p. 110; cfr. infra, p. 114.

64 Ibidem; cfr. infra, p. 114.

65 Ibidem, p. 112; cfr. infra, p. 116.

66 Ibidem; cfr. infra, p. 117.

67 Ibidem, p. 114; cfr. infra, p. 117.

68 Ibidem; cfr. infra, p. 117.

69 Ibidem, p. 118; cfr. infra, p. 119.

70 Ibidem; cfr. infra, p. 120.

71 Ibidem, p. 121; cfr. infra, p. 122.

72 Ibidem, p. 123; cfr. infra, p. 123.

73 Ibidem, p. 132; cfr. infra, p. 131.

74 Ibidem, p. 134; cfr. infra, p. 133.

75 Ibidem, p. 141; cfr. infra, p. 138.

76 Ibidem, p. 144; cfr. infra, p. 140.

77 Ibidem; cfr. infra, p. 140.

78 Ibidem, p. 143; cfr. infra, p. 139.

79 Ibidem, p. 145; cfr. infra, p. 140.

80 Ibidem, p. 146; cfr. infra, p. 141.

81 Ibidem, p. 149; cfr. infra, p. 143.

82 Ibidem; cfr. infra, p. 143.

83 Ibidem, p. 158; cfr. infra, p. 149.

84 Ibidem, p. 159; cfr. infra, p. 150.

85 Ibidem; cfr. infra, p. 150.

86 Ibidem; cfr. infra, p. 150.

87 Ibidem, p. 162; cfr. infra, p. 151.

88 Ibidem; cfr. infra, p. 152.

89 Ibidem, p. 163; cfr. infra, p. 152.

90 Ibidem, p. 164; cfr. infra, p. 153.

91 Ibidem; cfr. infra, p. 153.

92 Ibidem, p. 165; cfr. infra, p. 154.

93 Ibidem; cfr. infra, p. 154.

94 Ibidem; cfr. infra, p. 154.

95 Ibidem, p. 166; cfr. infra, p. 155.

96 Ibidem; cfr. infra, p. 155.

97 Cfr. infra, p. 181.

98 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 169; cfr. infra, p. 157.

99 Ibidem, p. 170; cfr. infra, p. 157.

100 Ibidem; cfr. infra, p. 157.

101 Ibidem; cfr. infra, p. 157.

102 Ibidem, p. 171; cfr. infra, p. 158.

103 Ibidem, p. 172; cfr. infra, p. 159.

104 Ibidem, p. 173; cfr. infra, p. 160.

105 Ibidem, p. 174; cfr. infra, p. 160.

106 Ibidem; cfr. infra, p. 160.

107 Ibidem, p. 175; cfr. infra, p. 161.

108 Ibidem; cfr. infra, p. 161.

109 Ibidem, p. 176; cfr. infra, p. 162.

110 Ibidem, p. 179; cfr. infra, p. 163.

111 Ibidem, p. 183; cfr. infra, p. 167.

112 Cfr. infra, p. 167.

113 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., pp. 185-186; cfr. infra, p. 169.

114 Ibidem, p. 186; cfr. infra, p. 169.

115 Ibidem; cfr. infra, p. 169.

116 Ibidem, p. 194; cfr. infra, p. 175.

117 Ibidem, p. 200; cfr. infra, p. 179.

118 Ibidem, p. 202; cfr. infra, p. 181.

119 Ibidem, p. 55; cfr. infra, p. 73.

120 Ibidem, p. 170; cfr. infra, p. 158.

121 Ibidem, p. 173; cfr. infra, p. 159.

122 Ibidem, p. 56; cfr. infra, p. 74.

123 Ibidem, p. 57; cfr. infra, p. 74.

124 Ibidem; cfr. infra, p. 74.

125 Ibidem; cfr. infra, p. 74.

126 Ibidem, p. 58; cfr. infra, p. 75.

127 Ibidem, p. 59; cfr. infra, p. 75.

128 Ibidem; cfr. infra, p. 76.

129 Cfr. infra, p. 146.

130 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 118; cfr. infra, p. 119.

131 Ibidem, p. 60; cfr. infra, p. 76.

132 Ibidem; cfr. infra, p. 77.

133 Ibidem, p. 173; cfr. infra, p. 159.

134 Ibidem, p. 132; cfr. infra, p. 131.

135 Ibidem, p. 133; cfr. infra, p. 132.

136 Ibidem, p. 149; cfr. infra, p. 143.

137 Ibidem, p. 202; cfr. infra, p. 182.

138 Ibidem, p. 204; cfr. infra, p. 182.

139 Federico Dessauer, Filosofia della tecnica, trad. di Mario Bendiscioli e prefazione dell’ingegnere Arturo Danusso, Morcelliana, Brescia 1933.

140 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., p. 207; cfr. infra, p. 185.

141 Ibidem, p. 209; cfr. infra, p. 188.

142 Ibidem, p. 216; cfr. infra, p. 180.

143 Ibidem, p. 180; cfr. infra, p. 164.

144 Ibidem, p. 98; cfr. infra, p. 104.

145 Marino Gentile, Institutio: sommario storico di filosofia dell’educazione, op. cit., p. 5.

146 Marino Gentile, Umanesimo e tecnica, op. cit., pp. 202-203; cfr. infra, p. 182.

147 Ibidem, p. 160; cfr. infra, p. 150.



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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