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Cat.n. 331

Diego Lanza

La disciplina dell’emozione. Un’introduzione alla tragedia greca. Prefazione di Anna Beltrametti.

ISBN 978-88-7588-235-8, 2019, pp. 416, formato 140x210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [107].

In copertina: Alcesti, i figli e altri personaggi, Loutrophòros apula vicina al Pittore di Laodamia, 340 a.C. circa., Basel, Antikenmuseum.

indice - presentazione - autore - sintesi

35,00

Anna Beltrametti

Diego Lanza, signore delle emozioni

Nel 1997 Diego Lanza pubblicò due libri: Lo stolto, Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune per Einaudi e La Disciplina dell’emozione. Una guida alla tragedia greca per il Saggiatore. Erano entrambi punti d’arrivo importanti dei suoi studi e insieme dovevano segnare un punto fermo, una sorta di traguardo biografico. Nel 1997 si compivano i sessant’anni dell’autore e si concretizzavano grandi progetti di studio e editoriali: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, Lanza aveva condiretto Lo spazio letterario della Grecia antica (Roma, Salerno Editore 1991-1996) e stava collaborando con Salvatore Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Torino, Einaudi 1996-2002). L’anno aveva dovuto segnare per Lanza una soglia su cui recidere alcuni fili e da cui riprenderne altri di una lunga ricerca, e un crinale che lo obbligava alla doppia prospettiva sul tempo che sarebbe venuto e su quello, necessariamente più lungo, che era già stato.

Con Lo stolto Lanza completava un dittico di figure antropologiche centrali nella cultura e nell’immaginario greco, rielaborate nei grandi testi della storiografia, del teatro e dei dialoghi platonici. Il libro, una storia della sapienza dissimulata sotto le maschere della follia e della stoltezza, era la continuazione e al contempo un parallelo a posteriori del saggio di vent’anni prima, Il tiranno e il suo pubblico del 1977, una messa a fuoco del sogno e dell’incubo del potere personale incarnato e agito dai personaggi dei tiranni narrati e rappresentati sulle scene ateniesi, nella città della democrazia originaria e paradigmatica. Con La disciplina dell’emozione, Lanza riportava in un quadro didattico, di alta didattica, i risultati del suo profondo e originale studio dedicato alla Poetica di Aristotele nel 1987 e delle sue ininterrotte letture del teatro non solo antico.

Riconduceva nelle linee del suo magistero universitario anche un forte tratto autobiografico richiamato dalla dedica alla memoria del padre nell’incipit di In luogo di premessa

Una fredda serata di nebbia decembrina a Milano, piazza Missori anno 1948 [...] nell’aula magna dell’allora Liceo Beccaria la rinata Università Popolare organizzava il corso “Il teatro nella storia” [...]. Quella sera si leggevano le Eumenidi. Fu la prima volta che, seduto su quei banchi affollati, vidi mio padre, in abito scuro, parlare in pubblico [...]

e ora narrato, nei toni alternati della testimonianza commossa e dell’invincibile riservatezza, nelle memorie postume di Il gatto di piazza Wagner (L’orma, Roma 2019).

La disciplina dell’emozione, un libro, pensato e articolato a supporto-approfondimento delle lezioni universitarie e destinato agli studenti e agli studiosi non solo di Filologia classica, si compone di due sezioni ben individuate. La prima parte (L’istituzione teatrale in Atene, pp. 21-221), di quattro capitoli, richiama i dati istituzionali imponendo all’attenzione, senza rinunciare mai a rimetterli in gioco e in causa, tempi e luoghi, temi e strutture, autori e personaggi, strategie drammaturgiche e possibili effetti sul pubblico del teatro ateniese. La seconda parte (pp. 223-361), di otto saggi selezionati, riporta alcune delle letture condotte nel tempo da Lanza su singole opere o sul filo di questioni capitali: la forte frequenza di figure femminili nel teatro di una città e di una cultura politica che aveva drasticamente ridimensionato il ruolo delle donne rispetto alle culture antiche più tradizionali in cui le regine garantivano la legittimità dei legami di sangue e delle dinastie; la ridondanza del mito in testi tragici che drammatizzavano sulla scena un segmento preciso e circoscritto di una vicenda leggendaria, ma continuamente richiamando per analogia o per amplificazione altri miti evocati in varie forme, perlopiù nei canti dei cori o negli assolo dei personaggi; il rapporto, nel teatro senecano e non solo, tra parole e immagini che si generano dal linguaggio in assenza di scenografia; la relazione di continuità e discontinuità tra il teatro di Seneca e i suoi modelli greci, da riaffrontare non soltanto sulla base dei principi tecnici e retorici della composizione, ma a partire dai motivi tematici più ricorrenti nel teatro di Seneca – il delitto, la dimensione della morte e dei suoi rituali, la crudeltà spettacolarizzata. Segue una cronologia della tragedia di V secolo, essenziale e tuttavia fondata oltre che sulle date documentate e certe di alcune tragedie sulla disamina ragionata e non esibita delle più attendibili ipotesi di datazione delle altre. Conclude il volume un utile indice dei passi citati.

Il libro è didattico, ma non dogmatico. Come nelle lezioni ex cathedra e nei seminari, Lanza offre quadri di informazioni certe, ma utili a riaprire i problemi più che a chiuderli in via definitiva. Rileggerlo, anche a distanza di oltre vent’anni, sollecita a porsi e a porre domande. E questo accade non solo, come è più facile aspettarsi, con i percorsi personali di lettura della seconda parte, ma anche con i capitoli più descrittivi e neutrali della prima parte. Spesso i capitoli terminano invece che con un’affermazione con un interrogativo che è anche una messa in guardia da soluzioni troppo facili e da proiezioni non abbastanza fondate.

Qual era l’estensione di quella che per comodità chiameremo tragedia del VI secolo, quale il rapporto tra cantato e recitato, quale soprattutto il suo registro drammatico? Sarebbe infatti un grave errore proiettare analogicamente all’indietro le conoscenze che possediamo a partire dal terzo decennio del V secolo, dalla data di rappresentazione della più antica tragedia ancora posseduta, i Persiani di Eschilo. Non solo nulla ci garantisce della stabilità dello spettacolo tragico in questa prima fase, ma abbiamo ottime ragioni per supporre al contrario sostanziali mutamenti.

Così si conclude (p. 37) il primo paragrafo del capitolo Le regole del gioco scenico, dedicato ai cori della tragedia, alla definizione, attraverso le fonti antiche, del choròs inteso fin dall’origine come spazio comunitario e come complesso di danzatori-musici-cantori che vi agivano collettivamente nelle occasioni cerimoniali e più marcate dell’intera comunità. Spazi comuni, dal choròs, lo spiazzo al centro dell’agglomerato abitativo, al teatro di Dioniso terrazzato sulle pendici sud-orientali dell’Acropoli; feste che interrompevano la vita quotidiana in onore di Dioniso; testi di autori ben differenziati che perpetuavano le forme dei canti tradizionali innovando e inframmezzandoli di discorsi e di dialoghi parlati; una recitazione convenzionale, codificata e antinaturalistica, condizionata dalle maschere e dai costumi; non più di tre attori che si spartivano, a seconda delle loro capacità, un numero maggiore di ruoli: sono queste le componenti che definiscono la differenza e la specificità inconfondibile del teatro ateniese e che Lanza affronta, una dopo l’altra.

La parola teatro si dice in molti significati. Sul nucleo stabile che denota una forma di comunicazione giocata anche, se non principalmente, sull’agire e sul vedere si caricano varianti decisive. Il teatro, i suoi codici e le sue forme, il suo senso, cambiano nel tempo e nella geografia. E la drammaturgia attica si definisce – come Lanza mette bene in luce – tra due poli di una dimensione sempre collettiva: da una parte le più antiche e arcaiche forme rituali, specie sacrificali valorizzate da un lessico marcato e pertinente, di cui talvolta include e custodisce le tracce all’interno delle nuove strutture testuali più complesse; dall’altra il quadro politico di cui, già dalla fine del VI secolo, il teatro regolato dai concorsi pubblici e dai collegi giudicanti è un istituto intrinseco e organico come le assemblee e i tribunali, sebbene con diverse e proprie funzioni. È un teatro musicale che sfugge alle nostre abitudini di fruizione e anche alle nostre usuali categorie interpretative, che può essere frainteso o radicalmente banalizzato dalle aspettative e dalle reazioni iner­ziali di chi vi si accosta e crede di comprenderlo per analogia con il teatro naturalistico del XIX e del XX secolo, attraverso l’estetica dell’illusione e gli psicologismi intimistici proiettati sui personag­gi. È un teatro – come si evince dalle riflessioni e dalle letture di Lanza – che scopre tutta la sua potenza solo se ricondotto nella cultura comunitaria in cui si è originato e interpretato iuxta propria principia, quei principi che facevano interagire e armonizzavano in una riconoscibile stilizzazione le convenzioni rigorose e stabili con le esigenze di verosimiglianza in continua ridefinizione. È un teatro, quello tragico posto al centro di La disciplina dell’emozione, che possiamo recuperare alla modernità e alla nostra attualità quanto più ne mettiamo in luce l’anacronismo rispetto a noi in cui si prolunga l’anacronismo originario, drammatico e strutturale della tragedia. La tragedia ateniese per convenzione parlava del suo presente senza parlare del presente. Investiva temi e problemi contemporanei, ben documentati da Tucidide e dall’oratoria, sulle vicende e sui personaggi della materia tebana, atridica o troiana, per dislocazioni di tempo e di spazio, continuamente rivisitando e rimodulando il patrimonio delle credenze trasmesse e note al pubblico cittadino che garantivano la costante e certa correlazione sapienziale ed emotiva tra la scena e la cavea.

Teatro degli dèi e teatro degli eroi, teatro che combinava la più antica sapienza con i saperi più nuovi e lavorava sui racconti tradizionali del “tempo senza tempo” per sollecitare o provocare gli spettatori sulle più scottanti questioni contemporanee del suo proprio tempo storico: i Greci e i barbari, la pace e la guerra, i rapporti di genere. Un teatro, la tragedia attica, che si fondava e di volta in volta ridisegnava un “ritmo tragico” basato principalmente sull’uso sapiente delle strutture drammatiche, della parola, della musica e del canto, un ritmo che sembra mutare radicalmente dalla tragedia greca a quella senecana, come emerge dall’ultimo percorso di lettura, Finis tragoediae.

Il ritmo tragico è il titolo dell’ultimo capitolo della prima parte del libro e resta, a mio avviso, uno dei passaggi più innovativi e pregiati di questa summa sulla tragedia antica. Lanza lo fa emergere rileggendo da vicino tragedie in cui violenza e trasgressione, sapientemente evocate dalla parola e più spesso dal canto con il supporto imprescindibile della musica, generano emozioni potenti sulla scena e dalla scena si trasmettono al pubblico, come dire alla comunità cittadina che nel pubblico si condensa. Sono turbamenti che per Lanza non si esauriscono nella paura aristotelica e coprono l’area più vasta e meno definibile del disagio:

Ma la violenza, realizzata o soltanto incombente, non richiama solo l’esperienza paurosa della morte, essa segna anche la rottura di un’armonia. È questo disagio, che può avere moltissimi aspetti, a stabilire quello che si potrebbe definire il tono di ascolto della tragedia (p. 188).

Il disagio dunque, la percezione della rottura di un ordine condiviso, di una lacerazione avvertita o consumata come cifra della tragedia ateniese. Lo smarrimento collettivo che il coro può talvolta compensare e talvolta, come nell’Agamennone, innescare, che i canti e i dialoghi possono placare o esasperare con il lirismo struggente di alcuni assolo o di alcuni duetti o con la concitazione delle sticomitie e delle antilabai, le battute spezzate, via via sempre più serrate, alimentando le emozioni fino al culmine di curve che nei finali Lanza vede temperarsi o ricomporsi (pp. 207-208).

Sul sollievo che dovrebbe necessariamente subentrare al disagio, secondo la lezione della Poetica di Aristotele e nell’espressione celebre di Paul Valéry, ebbi modo di discutere a più riprese con il mio maestro. Lanza, con straordinaria finezza, aveva rilevato e valorizzato incorporate nelle tessiture drammaturgiche sia forme di razionalizzazione gnomica e discorsiva sia tracce di stordimento fonico proprio dei compianti funebri, dei “corrotti” e dei veri e propri kommoi accompagnati dalle percussioni e dai gesti dell’autolesionismo regolati da un’antica codificazione ed espressamente nominati nel canto. Come le lamentazioni delle prefiche praticate nel Sud dell’Italia e studiate da Ernesto De Martino nel secolo scorso, anche i compianti tragici antichi e le consolazioni dovevano contenere e disciplinare il dolore e il disagio sulla scena e negli spettatori. Eppure, la mente di Oreste che sfugge al controllo come un cavallo senza briglie nel finale delle Coefore, le orbite vuote e insanguinate con cui Edipo ricompare nell’ultima scena dell’Edipo re, l’addio della vecchia Ecuba al corpo del piccolo principe ricomposto sullo scudo di suo padre nelle Troiane, la testa di Penteo tra le mani di sua madre nelle Baccanti, continuano a sconvolgermi, la provocazione di queste immagini mi pare prevalere su ogni possibile sedazione e non lasciarsi assorbire.

Era così anche per gli spettatori di Atene? O aveva ragione Aristotele e con lui Lanza nel cogliere il sollievo e la normalizzazione nello scioglimento drammatico? Resta e resterà il dubbio, sebbene Lanza in una delle ultime conversazioni, pochi mesi prima della sua scomparsa, ricordando il contributo che avevo presentato per i suoi festeggiamenti a Lille nel marzo 2008 mi salutò con le parole che non dimentico: «Sulla non ricomposizione tragica, temo che tu forse abbia ragione». Serbo quelle parole come un’eredità preziosa, come uno spunto per continuare a interrogarmi e a riflettere, come un’ulteriore apertura da aggiungere alle tante che il suo libro continua a offrire.

Anna Beltrametti

Università di Pavia

Letteratura greca e Drammaturgia antica



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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