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Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? - K. BLIXEN
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Cat.n. 149

Luca Grecchi

L’umanesimo della antica filosofia indiana.

ISBN 88-7588-031-1, 2009, pp. 128, formato 140x210 mm., Euro 15. Collana “Il giogo” [30].

In copertina: I “Quattro incontri” del Bodhisattva (col malato, col vecchio, col funerale, e con l’asceta). Pittura dell’Asia Centrale. Parigi, Musée Guimet.

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15,00

Questo libro si pone in continuità con il nostro L’umanesimo della antica filosofia cinese nella descrizione dei contenuti umanistici presenti nella filosofia orientale, della quale anche in prossime pubblicazioni cercheremo di fornire un quadro il più possibile “completo”. Nonostante il nostro interesse prevalente continui a rimanere orientato verso la antica filosofia greca, abbiamo deciso di occuparci di filosofia orientale in quanto riteniamo scandalosa – alla luce, anche, dei crescenti fenomeni migratori – l’ignoranza assoluta (quella relativa è scusabile) che sulla medesima caratterizza la quasi totalità degli attuali pensatori in Occidente.
La “completezza” cui poc’anzi si faceva cenno non riguarda né i contenuti (limitati, come detto, a quelli umanistici), né l’ampiezza temporale (limitata, appunto, alla antichità) di queste filosofie. Essa verte sulla analisi delle medesime in base ai loro contenuti essenziali, i quali si disvelano indagandole non solo sul piano teoretico, ma anche sul piano storico-sociale.
Sempre in merito alla “completezza” con cui stiamo cercando di occuparci della filosofia orientale, ribadiamo sin da ora che a questo libro faremo seguire, in una ideale trilogia, un testo intitolato L’umanesimo della antica filosofia islamica. Abbiamo inoltre chiesto al Prof. Maurizio Scarpari di assumersi il compito di coordinare i maggiori specialisti di filosofia orientale (intendendo l’Oriente nel suo senso più ampio), per realizzare un testo complessivo intitolato L’Oriente e l’uomo, che uscirà in questa stessa collana.
Chiarito, dunque, che questo non è un libro scritto da uno specialista di filosofia indiana – e pertanto esso non si rivolge a tali specialisti –, desideriamo anche specificare che non si tratta nemmeno di un manuale di storia della filosofia indiana. Questo libro può anzi essere più utilmente consultato proprio dopo la lettura di qualche buon manuale, quali quelli citati in bibliografia. Per questo motivo saranno qui spesso omessi pensatori minori, così come non saranno citate scuole di minore importanza. Quelle che saranno esplicitate saranno solo le tendenze fondamentali della antica filosofia indiana, per come da noi interpretata.
Ci pare corretto rimarcare che, diversamente rispetto a quanto accaduto con la antica filosofia cinese, presso la quale ci siamo subito sentiti “a casa”, non così è stato con la filosofia indiana. Non riusciamo pertanto a concordare con Joseph Needham il quale ha sostenuto che, a causa della comune matrice sanscrita della lingua indoeuropea, «la civiltà indiana [...] fa parte in larga misura della nostra», mentre la filosofia cinese ci è estranea. Abbiamo infatti riscontrato parecchie difficoltà – con la filosofia indiana – nell’eseguire il compito che con questa trilogia ci siamo prefissi, ovvero quello di assimilare le varie dottrine orientali per poi esporle, al contempo, in modo fedele e comprensibile, partendo dal contesto storico-sociale in cui esse inevitabilmente sono nate.
Per questo motivo sottolineeremo nel testo, oltre alle analogie, molteplici differenze fra il pensiero indiano ed il pensiero occidentale. Riteniamo però opportuno rimarcare sin da ora la tesi che reputiamo centrale nella nostra complessiva interpretazione dei vari pensieri antichi. Si tratta della tesi secondo cui, pur posti in contesti differenti, gli uomini tendono sostanzialmente sempre, a parità di condizioni complessive, a pensare cose simili, a causa della comune natura umana. Per questo motivo ci è stato possibile riscontrare, in civiltà diverse, un comune nucleo culturale umanistico ed anticrematistico. Questa tesi è stata in linea di massima condivisa anche, in un testo del 1916, da un importante storico dell’arte indiano, A. K. Coomaraswamy, che ha aggiunto: «Affinché la civiltà del mondo sia una civiltà comune, necessitiamo di una comune volontà, vale a dire del riconoscimento dei problemi che ci sono comuni, e della collaborazione di tutti per risolverli. In un’epoca come la nostra, in cui il mondo occidentale sta incominciando a rendersi conto di aver fallito nel suo tentativo di cogliere il frutto della vita in una società fondata sulla concorrenza e sulla autoaffermazione, c’è un profondo significato nella scoperta del pensiero asiatico: un pensiero in cui si afferma con non flebile voce che il frutto della vita può essere colto soltanto in una società fondata su concezioni di ordine morale e di responsabilità reciproca».
Rimane ancora da dire che, in ogni libro in cui uno studioso occidentale si approccia al pensiero orientale, è molto importante non commettere l’errore di realizzare una forzata unificazione fra filosofie, ovvero – in questo caso – l’errore di interpretare la filosofia indiana con categorie occidentali. In questo libro, come nel precedente sulla filosofia cinese, si potrebbe avere questa impressione soprattutto per un motivo, ovvero che si è deciso di riportare i termini in lingua originaria solo per il minimo indispensabile. Si tratta di una scelta che sinologi ed indologi sicuramente reputeranno discutibile, ma che a nostro avviso può consentire al lettore occidentale di concentrarsi meglio sulle tendenze fondamentali del pensiero esaminato, anziché su alcune sue particolarità. Goethe, in una nota del 17 febbraio 1829, scrisse che gli occidentali hanno la irrefrenabile tentazione di descrivere la filosofia indiana in maniera troppo simile alla nostra: da questa tentazione abbiamo cercato in ogni modo di astenerci, anche evitando paralleli troppo marcati con la antica filosofia greca.
Concludiamo chiarendo che uno dei compiti del presente libro è quello di aiutare a far cadere il pregiudizio, di matrice ottocentesca, secondo il quale la filosofia indiana non sarebbe da considerare come filosofia, ma solo come astratta e mistica affabulazione. In realtà, la ricerca sul cosmo e sul divino propria dell’antico pensiero indiano fu sicuramente una ricerca di verità, ed in particolare una ricerca di verità umana, perché parlare della natura e degli dèi è sempre stato, per l’uomo, un modo di parlare in modo più ampio e profondo della propria umanità. Il pensiero indiano – o, quanto meno, il pensiero di quella elite di asceti e bramani cui dobbiamo la quota maggiore di tale pensiero – è sempre stato dunque, in senso ampio, pensiero filosofico. Abbiamo infatti argomentato anche altrove che la filosofia possiede due caratteristiche costitutive: da un lato essere ricerca dialettica della verità dell’intero, e dall’altro cura dell’uomo rispettosa del cosmo.
Nonostante la ricerca di verità dell’antico pensiero indiano non si sia sempre basata su solidi fondamenti teoretici, la sua cura dell’uomo, ovvero il suo umanesimo, fu, come nella antica filosofia cinese, tale da compensare il deficit talora presente sul piano veritativo. Come ha rilevato in merito Giuseppina Scalabrino Borsani, tutta la filosofia indiana, da quella antica a quella contemporanea (che peraltro si pone in netta continuità con quella antica), ha identificato «l’oggetto del suo filosofare nell’uomo e nelle sue situazioni esistenziali [...]. La filosofia indiana è caratterizzata da una interiorità spirituale e da una insistenza sullo studio dell’anima» che ha pochi uguali all’interno della storia della filosofia occidentale. Nella medesima direzione le parole di R. Tagore, che pienamente condividiamo: «La mia opinione è che, per quanto riguarda l’educazione, è possibile seguire gli antichi principi indiani [...]. Questi principi fondati sulle verità eterne della natura umana non hanno perso nulla del loro significato, per quanto le circostanze della nostra vita siano mutate attraverso i secoli».



Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, che dunque vogliano pure pensare da sé (K. Marx). – Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada (Eraclito). – ... se uno ha veramente a cuore la sapienza, non la ricerchi in vani giri, come di chi volesse raccogliere le foglie cadute da una pianta e già disperse dal vento, sperando di rimetterle sul ramo. La sapienza è una pianta che rinasce solo dalla radice, una e molteplice. Chi vuol vederla frondeggiare alla luce discenda nel profondo, là dove opera il dio, segua il germoglio nel suo cammino verticale e avrà del retto desiderio il retto adempimento: dovunque egli sia non gli occorre altro viaggio (M. Guidacci).

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